Il ricordo di sei giovani morti per la libertà
Il boato delle granate nel nucleo del paese, la marcia silenziosa di sei partigiani scortati fino al cimitero e, infine, la fucilazione. Sono passati ottant’anni da quella domenica 21 gennaio 1945 in cui si è consumato l’eccidio di Cima, frazione di Porlezza. Un episodio che ha marchiato a fuoco la storia del Ceresio e che è stato commemorato dal Comune e da un libro curato da Pier Giuseppe Gozzi, appassionato di storia locale.
Nell’Alto Lario, a una manciata di chilometri da Lugano, l’inverno 1944/45 fu punteggiato dai numerosi scontri tra le Brigate Nere capeggiate da Emilio Castelli e le forze partigiane. Il rastrellamento dell’intera regione alla fine del novembre 1944 inaugurò infatti un periodo cruento, che portò alla tortura e all’uccisione di diversi combattenti. I membri della Resistenza decisero quindi di nascondere le armi sulle montagne della Valsolda e riparare in Svizzera, attraverso il Passo del Pairolo. A difesa dell’arsenale rimase un solo gruppo: quello capeggiato da Peppino Selva (nome di battaglia: Falco), originario di Cima.
«L’eccidio del 21 gennaio 1945» ricorda Pier Giuseppe Gozzi, anche lui nato e cresciuto a Cima, «è sicuramente rimasto nella memoria di tanti per l’uccisione in contemporanea di sei persone. Ma nel corso del tempo si sono diffuse molte false credenze che ho cercato di confutare con l’aiuto di documenti e rapporti ufficiali».
Gozzi ha così riassunto l’intera vicenda in «21 gennaio 1945 – Mattinata infernale», pubblicato nel 2020 come quaderno del Gruppo culturale San Giorgio di Cima. Dopo aver trascorso diversi giorni all’Alpe vecchio, a oltre 1.000 metri di altitudine, il gruppo capeggiato da Falco si abbassò di quota e perpetrò diversi furti ai danni di simpatizzanti fascisti. Le tracce portarono a Cima e i militi fascisti individuarono infine la casa in cui si nascondevano i partigiani. «Ma non è vero che le Brigate Nere accerchiarono l’intero paese con centinaia di soldati o che ingaggiarono una sparatoria lunga ore. Bastarono una ventina di uomini e l’effetto sorpresa».
Dopo essersi posizionati nella casa di fronte al nascondiglio di Falco con una mitragliatrice leggera, Emilio Castelli e i suoi attesero l’alba del 21 gennaio 1945 per aprire il fuoco. I sei partigiani reagirono con qualche colpo di mitra e il lancio di una o due granate, ma nel giro di poco si arresero e uscirono dall’edificio sventolando un panno bianco. Anziché imprigionarli, però, i fascisti li condussero al cimitero.
Prossimi alla morte, i giovani poterono contare solo sul conforto di don Adolfo Ratti, parroco di Cima, che raccolse anche le loro ultime parole. «Mia adorata moglie» scrisse Peppino in un biglietto, «è questo il mio ultimo istante di vita, ti bacio e ti abbraccio, ci rivedremo in cielo – Robertina, ricordati sempre del tuo papà». Dopo averli schierati di fronte a un muro, fu infine lo stesso Castelli a ordinare la fucilazione. Morirono così Peppino e Angelo Selva, Andrea Capra, Gilberto Carminelli, Ennio Ferrari e Livia Bruna Bianchi, poi insignita della Medaglia d’Oro al Valor Militare (unica donna in Lombardia). Il più giovane aveva 17 anni, il più grande nemmeno 29.
Da anni, ogni 21 gennaio, il Comune di Porlezza organizza una commemorazione per ricordarli: si parte alle 9.30 dal lungolago di Cima e si percorre la strada che porta al cimitero, passando davanti all’ultimo rifugio di Falco e i suoi che oggi si trova in Contrada Sei Caduti. Anche le scuole fanno la loro parte, portando gli allievi a conoscere la storia di Falco, Russo, Puccio, Bill, Carlino e Franca, per citare i loro nomi di battaglia.
«Per le nuove generazioni» conclude Gozzi, «è fondamentale conoscere episodi come questi, ma senza enfatizzarli; bisogna attenersi alla verità. Solo in questo modo i giovani potranno abbracciare i fatti e dare la loro valutazione su quanto accaduto quel 21 gennaio 1945».
Per chi volesse reperire una copia del testo curato da Gozzi, è possibile richiederla direttamente all’autore scrivendo a [email protected].