Il ticinese ambasciatore a Cuba: «Qui c'è povertà ma non miseria»

Di madre luganese e padre bleniese, Stefano Vescovi ha iniziato la sua carriera nell’Amministrazione federale alla fine degli anni ‘90 con uno studio sulla ferrovia Mendrisio-Varese per conto del DATEC, ha seguito un percorso eclettico e ora è ambasciatore svizzero a Cuba e in Giamaica. Giovedì era a Bellinzona per discutere con una delegazione del Gran Consiglio. E per una visita dal dentista.
Signor Vescovi, perché non va dal dentista a Cuba?
«A Bellinzona ho il mio dentista di fiducia. L’anno scorso a Cuba ho avuto un incidente al piede. Mi hanno fatto una diagnosi errata. Dopo un mese ho capito che non andava, sono tornato in Svizzera e mi hanno operato d’urgenza al San Giovanni. A proposito, un ospedale eccellente, con personale competente».
Ma non c’era anche a Cuba una sanità d’eccellenza?
«A Cuba ci sono tanti bravissimi medici, richiesti in tutto il mondo. Ma oggi negli ospedali cubani mancano strumenti e medicinali».
È un Paese in crisi?
«È un Paese bellissimo ma in decadenza. Ci sono spesso interruzioni di corrente e si fa fatica anche a trovare il diesel per i generatori, anche in conseguenza delle sanzioni applicate dagli USA. C’è un’emigrazione di massa. Ogni giorno 800 cubani lasciano l’isola, indebolendo il Paese. Però non c’è miseria. A Cuba c’è povertà, ma non miseria come in altri Paesi».
E in Giamaica?
«In Giamaica l’economia gira meglio, c’è tanto turismo. Però, contrariamente a Cuba, inGiamaica c’è un grande problema di violenza, legata alla criminalità urbana».
Quanti sono gli svizzeri a Cuba e in Giamaica?
«A Cuba alcune centinaia, per la maggior parte persone che si sono innamorate dell’isola e di qualcuno del posto. In Giamaica ci sono circa 150 svizzeri, qualche uomo d’affari e qualche appassionato di cultura rasta e musica reggae».


Cosa dicono sul tema dell’appropriazione culturale?
«Sono rimasti basiti quando in Svizzera c’è stata la polemica sui cantanti reggae con le treccine rasta. Loro, al contrario, ritengono che sia positivo che nel mondo ci siano persone che amano la loro cultura e la diffondono».
Giovedì cosa ha raccontato ai granconsiglieri?
«Più che parlare di Cuba o Giamaica, li ho incoraggiati a rafforzare il dialogo con gli alti funzionari federali ticinesi. Non per metterli sotto pressione ma per ascoltare il punto di vista di chi opera da un osservatorio privilegiato. Il Ticino può solo beneficiare di questi scambi».
Il Ticino è ben rappresentato nelle alte sfere?
«Oggi abbiamo la fortuna di avere un consigliere federale ticinese, Ignazio Cassis, ma abbiamo ancora troppo pochi alti funzionari. Ci sono stati dei ticinesi che hanno fatto un lavoro eccellente, penso per esempio a Mauro Dell’Ambrogio o Bernardino Regazzoni. Ma restiamo ancora sottorappresentati».
Quali sono i nostri limiti?
«Sicuramente l’aspetto linguistico. A differenza degli altri, noi dobbiamo saper padroneggiare almeno una lingua ufficiale che non sia la nostra. Poi c’è l’aspetto geografico. Chi vive a Friborgo, Soletta o Zurigo può fare avanti e indietro da Berna ogni giorno. Noi no».
Lei come è diventato funzionario federale?
«Dopo aver studiato economia e scienze politiche a Berna sono entrato al Dipartimento federale dell’ambiente, dei trasporti e dell’energia dove mi sono occupato della pianificazione politica dei trasporti internazionali e delle infrastrutture future. In particolare, ho gestito il primo studio federale sulla ferrovia Mendrisio-Varese. Ma poi mi sono licenziato».


Ah.
«Volevo conseguire un dottorato e sono andato a Berlino a studiare scienze sociali. Lì ho fatto parecchie cose, ho pure fondato un’azienda. Poi un giorno mi ha chiamato un’amica».
Cosa le ha detto?
«Mi ha ricordato che l’età massima per entrare nel corpo diplomatico era di 30 anni e che entrambi ci eravamo quasi. Così ho passato il concorso diplomatico, ho lasciato Berlino e sono approdato al Dipartimento federale degli affari esteri».
Perché ha scelto la diplomazia?
«Per me è un onore essere al servizio della Svizzera ma non volevo dover restare sempre a Berna. La diplomazia permette di promuovere gli interessi e i valori svizzeri nel mondo, di fare tanti mestieri in uno, di conoscere persone che sono quasi sempre molto interessanti».
In quale Paese ha iniziato?
«In Tanzania».
Una sua scelta?
«Io avevo solo detto che non volevo andare né a Parigi né a New York. Volevo un posto complicato. Mi hanno accontentato, anche perché per l’Africa non c’era la coda».


È stato complicato?
«In realtà non è stato così difficile. La Tanzania è un Paese povero ma in crescita. Ed è un posto bellissimo, con una natura straordinaria. Viaggiando per lavoro capitava di fermarsi ad ammirare il passaggio di decine di elefanti».
Poi dove l’hanno mandata?
«Sono tornato a Berna, da dove mi occupavo di America Latina e quindi anche di Cuba. Tra le cose belle, abbiamo per esempio accompagnato Cuba a non applicare più la pena di morte. Dopo sono andato a Bruxelles agestire la sezione energia, ambiente, clima e trasporti, dove mi occupavo anche di negoziare accordi sul clima e l’energia».
Quindi negoziava gli accordi bilaterali?
«Sì, la diplomazia è anche questo. Mi piace dire che il diplomatico è un po’ come il costruttore di ripari valangari. È un lavoro un po’ ingrato. Non lo si mette in evidenza per non spaventare la gente. Se poi la valanga arriva, tutti considereranno normale la presenza di ripari. Mentre se non arriva, diranno che si è speso troppo per niente».
I negoziati hanno un costo ma non per forza una resa.
«Esatto. Negoziare costa. Spesso non si ottiene nulla. Ma in caso di successo, il guadagno può essere enorme, come per l’accordo di pace che la Svizzera ha mediato in Mozambico».
L’accordo del 2019?
«Sì, è stato uno dei più grandi successi della diplomazia elvetica degli ultimi decenni, di cui buona parte del merito va all’ambasciatore ticinese Mirko Manzoni, che io ho seguito come referente da Berna. L’accordo ha posto fine a una guerra civile che andava avanti da quarant’anni. Chiaramente i negoziati hanno avuto un costo. Ma la pace ha un valore enorme, perché permette lo sviluppo del Paese».


E a Cuba cosa fa la Svizzera?
«Per anni ha rappresentato gli interessi cubani a Washington e quelli statunitensi all’Avana. Come attività di cooperazione, la Svizzera ha contribuito a sviluppare la produzione agricola attraverso le cooperative e a rafforzare il ruolo dei municipi cubani, ciò che da una parte rompe la monoliticità del governo centrale, dall’altra favorisce la partecipazione della popolazione».
Cosa dice la popolazione dell’attuale situazione?
«Rispetto al passato, quando nessuno osava criticare il governo, oggi per strada si sentono più facilmente espressioni di dissenso, in particolare in merito alla difficile situazione economica».
Il sistema rischia di crollare?
«Non credo e comunque non ho doti di preveggenza. L’impressione è che la gente non esiga grandi cambiamenti ma solo un po’ più di autonomia nel gestire la propria vita quotidiana, specialmente sul lato economico».