L'intervista

«In Iran si vive l'eterna lotta tra moderno e tradizione»

Seme del fico selvatico è l’opera più matura di Mohammad Rasoulof, capace di integrare nel proprio cinema anche gli stilemi dei grandi autori occidentali
© Locarno Film Festival/Ti-Press
Antonio Mariotti
12.08.2024 06:00

Ha riempito piazza Grande con un film di quasi 3 ore di durata parlato esclusivamente in farsi. Mohammad Rasoulof non è forse il primo regista iraniano a riuscire in questa impresa, ma il suo Seme del fico selvatico (la cui uscita nelle sale ticinesi è prevista a metà novembre) è l’opera più matura di un cineasta e sceneggiatore dalle basi solidissime, capace di integrare nel proprio cinema anche gli stilemi dei grandi autori occidentali. Rasoulof ha sempre usato l’arma della metafora, anche per sfuggire alla censura, e la nostra conversazione inizia proprio da qui.

Il titolo del suo film fa uso di una metafora vegetale per significare il soffocamento della libertà individuale da parte del regime iraniano: una scelta che era presente sin dall’inizio del suo progetto?
«Sì, per me la cosa più importante in questo film è mostrare come un sistema totalitario e autoritario riesce a sopravvivere nonostante tutto. Quindi il titolo esprime perfettamente questa idea grazie alla metafora del fico selvatico che a poco a poco soffoca letteralmente l’albero dove ha messo radici. Lo spiego in un cartello proprio all’inizio del film per lasciare allo spettatore il compito di mettere in relazione la storia del titolo e la storia del film».

Un altro tipo di metafora presente nel suo film è il fatto di scegliere una famiglia di quattro persone per raccontare ciò che succede oggi nella società iraniana. Una società dove solo i più giovani hanno ancora la possibilità di far mutare le cose?
«Non si può dire che la speranza del cambiamento non sia presente nelle generazioni più mature, quanto piuttosto che l’iniziativa e il fatto di agire siano nelle mani dei giovani. Sono quindi convinto, come cerco di mostrare nel mio film, che saranno le giovani generazioni a cambiare l’Iran».

Una delle maggiori sorprese che caratterizza il suo film è quanto accade dopo che la famiglia protagonista si sposta da Teheran a una villa nella campagna circostante. Un cambiamento ben più profondo rispetto alla semplice scelta di una nuova ambientazione?
«Gli ultimi 100-150 anni della storia iraniana sono caratterizzati, anche secondo le ricerche di diversi sociologi, da una continua lotta tra tradizione e modernità. È una costante che contribuisce a rimescolare le acque: cent’anni fa c’era qualcuno che voleva per forza far togliere il velo alle donne, poi è arrivato qualcun altro che lo voleva rimettere per forza. La prima domanda che mi sono posto quindi era come rappresentare nel film questa lotta infinita tra tradizione e modernità. È questa la base del film e la vediamo in tanti modi diversi: nella contrapposizione generazionale tra i vari personaggi, ma anche tra Teheran - la capitale moderna - e le rovine dell’Iran antico che diventano anche la tomba del protagonista, il giudice Iman, che viene ucciso dalle nuove generazioni. Ma lo si vede anche nell’abbigliamento o nel fatto che la casa della famiglia a Teheran ha molte grandi finestre ma tutte sono coperte da tende pesantissime».

E questi cambiamenti attraversano tutti i personaggi: sono attori con cui aveva già collaborato e come ha lavorato con loro?
«Tra gli attori principali, l’unico con cui avevo già lavorato è Missagh Zareh che qui interpreta Iman ed aveva già avuto una piccola parte in un altro mio film. Ma i cambiamenti maggiori li vediamo nei personaggi delle figlie di Iman: la figlia minore sembra sin dall’inizio la più coraggiosa delle due e ciò si nota nel modo in cui si comporta e nei vestiti che indossa. E penso che a un certo punto lo spettatore possa intuire che sia stata lei a rubare la pistola del padre provocando l’inizio della sua paranoia. Quello della madre è invece un personaggio che asseconda in tutto il marito e che finché è possibile si cura solo della famiglia. Nelle figlie però ciò che provoca davvero il cambiamento è la possibilità di avere accesso a tutto il materiale online che documenta le manifestazioni in corso in tutto il Paese. Non possono ignorare questi video che passano attraverso i social media e vengono letteralmente trasformate da questa esperienza. Per ciò che riguarda il padre, invece, lo conosciamo di più attraverso un percorso a ritroso: man mano che il film avanza percorriamo le tappe della sua vita grazie a una serie di flashback».

Lei ha lasciato l’Iran nel maggio scorso: come vede la situazione dei suoi colleghi che sono rimasti in patria?
«Posso dire che tutti i membri della mia troupe sono sotto enorme pressione, gli hanno confiscato i passaporti ed è per questo che non possono essere qui con noi per la proiezione del film a Locarno. Non possono andarsene, non possono svolgere lavori artistici eppure non ci sono procedimenti giudiziari aperti nei loro confronti. Quindi devono ancora essere giudicati e non si capisce ancora come e quando ciò possa accadere. È probabilmente solo un modo da parte del regime per creare loro delle difficoltà nella vita quotidiana e impedire loro di vivere e lavorare normalmente».

Purtroppo il tempo a nostra disposizione è scaduto e non riusciamo a porre a Mohammad Rasoulof un’altra domanda che ci stava particolarmente a cuore, ovvero quella riguardante le sue intenzioni per il futuro. Come è capitato ad altri suoi noti connazionali che nei decenni scorsi hanno scelto la via dell’esilio (da Abbas Kiarostami ad Asghar Farhadi) si cimenterà in produzioni ambientate in contesti europei? Probabilmente Rasoulof avrebbe dato una risposta interlocutoria a questa domanda. È infatti molto difficile che, meno di tre mesi dopo aver lasciato il proprio Paese, abbia già le idee chiare in proposito. Di certo preferirebbe poter tornare in Iran dopo che i giovani abbiano rovesciato la teocrazie e continuare a fare il proprio lavoro in un Paese libero, senza la spada di Damocle della censura e la paura costante di finire in prigione a causa delle idee che esprime nelle sue opere. È davvero chiedere troppo? 

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