Società

In lutto per Ofelia o l’eufemismo del politicamente corretto

Caricaturalmente associato alle bandiere arcobaleno, alla cultura woke o «del non si può più dire niente» da un lato, e alla volontà di utilizzare un linguaggio non offensivo dall’altro, il politically correct ha origini che vanno al di là del suo forte utilizzo occidentale, pro o polemico, degli ultimi tempi
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Sara Fantoni
21.09.2024 16:37

Caricaturalmente associato alle bandiere arcobaleno, alla cultura woke o «del non si può più dire niente» da un lato, e alla volontà di utilizzare un linguaggio non offensivo dall’altro, il politically correct – politicamente corretto in italiano – ha origini che vanno al di là del suo forte utilizzo occidentale – pro o polemico – degli ultimi tempi.

Nato negli Stati Uniti degli anni ’30 come fenomeno di sinistra, ed esploso alla fine degli anni ‘80 diffondendosi nel resto dell’Occidente, mira ad utilizzare espressioni linguistiche di «estremo rispetto verso tutti» definisce Treccani («e verso tutte» aggiungiamo noi). La voce relativa dell’enciclopedia aggiunge: «designa un orientamento ideologico e culturale che evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone, tramite una versione nobilitata dell’eufemismo».

Ora, mettiamo innanzitutto in evidenza due termini impiegati in questa definizione – rispetto e offesa –, lasciando un momento da parte le riflessioni sull’utilizzo dell’espressione «potenziale offesa», e partiamo da lì. Chi sono esattamente queste «categorie di persone»? E quali sono i risvolti concreti nella lingua e nel suo utilizzo corrente? Si tratta davvero unicamente dell’espressione così densa del significato che individualmente gli attribuiamo in Occidente monopolizzandone l’uso, oppure il politically correct appare anche in culture diverse?

Partiamo dalle basi

Alla base di questo orientamento si trova un principio concettualmente molto semplice: utilizzare un linguaggio privo di pregiudizi. È in questo senso che la maniera in cui vengono designate minoranze e gruppi storicamente discriminati sono oggetto principale di discussioni, riflessioni e modifiche per raggiungere questo obiettivo. Parliamo dunque principalmente di termini, ma anche di azioni, relativi a genere ed etnia.

Concretamente? Afroamericano è entrato nel linguaggio comune in sostituzione di nero, e in inglese di blacknigger e negro dagli anni ’80 negli USA. Oppure, a formulazioni utilizzanti il maschile neutro come ad esempio «l’uomo è un animale sociale», si preferiscono espressioni più inclusive come «le persone sono animali sociali».

Le cose si complicano, come sappiamo. Ma perché?

Oltre a queste due categorie principali – etnica e di genere – il politicamente corretto tocca anche altre categorie come quelle legate a situazioni fisiche particolari. Per esempio, ad handicappato – in alcuni contesti usato in maniera dispregiativa o addirittura come insulto – si preferisce diversamente abile; a cieco, non vedente; a nano, persona di bassa statura, e così via. Anche alcuni mestieri – e qui forse qualcuno cadrà dal pero – avrebbero un’espressione preferenziale per evitare connotazioni o impieghi del termine in maniera negativa. Bidello diventa dunque operatore scolastico e a becchino è preferito operatore cimiteriale.

Se quindi concettualmente il politically correct si vuole come orientamento positivo che guarda a una giusta considerazione del prossimo, come mai la sua applicazione si rivela così controversa? La questione si complica dal momento in cui l’obiettivo non è solo linguistico, ma vorrebbe essere anche sostanziale. Alcuni studi come quello della professoressa di etnolinguistica Sabina Canobbio, sostengono che le problematiche sociali di discriminazione e pregiudizio non sono risolvibili unicamente con cambiamenti linguistici e, anzi, questi mutamenti sarebbero «spesso destinati a coprire realtà scomode», fino a parlare di danni collaterali, invece di strage di civili; di neutralizzare il nemico, piuttosto che di ucciderlo. Più in generale, chi si oppone al politicamente corretto così come lo intendiamo oggi, identifica una conformazione di pensiero in grado di limitare la libertà di espressione e la messa in evidenza di problematiche profonde.

Da qui lo scontro senza fine con chi, invece, sostiene l’intento di questa ideologia nel portare a discussioni civili, rispettose, con l’obiettivo di considerare le sensibilità altrui, scegliendo – a volte al posto della minoranza stessa, nel tentativo di mettersi nei loro panni – quali termini o espressioni possano essere offensivi, e quali no. A questo proposito, l’attivista e scrittrice Michela Murgia nel 2021 sul settimanale «L’Espresso» aveva messo in evidenza «la minaccia alla pretesa di lasciare le parole del potere esattamente dove sono già esiste, solo che non si chiama cancel culture e nemmeno politically correct. Si chiama evoluzione sociale, inclusione e allargamento dei diritti».

Un’offesa a diverse sfumature (per usare un eufemismo)

Ed è qui che si apre una voragine. Non ovunque, infatti, il politicamente corretto ha lo stesso significato. Ci siamo infatti mai chiesti se questo concetto così «occidentale» non possa esistere in maniera differente altrove?

Anche se in casi come quello della Cina e della Russia il politically correct rimane inteso come un concetto tutto americano di disgregazione – come sostiene l’intellettuale Lin Yao nel suo saggio «Journal of Contemporary China» – oppure di mancanza di libertà negli USA nel poter «dire o ridere a proposito di ciò che ritieni divertente o vero» – come afferma la giornalista russa e concorrente alle elezioni presidenziali contro Putin nel 2018, Ksenia Sobchak –, ci sono casi come quello iraniano dove questa espressione ha un significato proprio.

Se sempre di offesa e scelta di cosa sia moralmente giusto stiamo parlando, leggendo Leggere Lolita a Teheran, dell’autrice e professoressa universitaria iraniana, ora cittadina americana, Azar Nafisi, ci si imbatte un paio di volte nel termine «politicamente (s)corretto» in un contesto diverso rispetto all’immaginario che solitamente gli attribuiamo. Di cosa stiamo dunque parlando?

Visualizziamo – per quanto possibile – di essere delle studentesse di letteratura iraniane, nei decenni successivi alla rivoluzione islamica in Iran della fine degli anni ’70, che si riuniscono più o meno clandestinamente con la loro professoressa per discutere di libri. Ecco, immaginiamo ora in queste circostanze, un acceso dialogo fra le allieve della professoressa Nafisi riguardante una proiezione della versione russa dell’Amleto, senza Ofelia – il suo iconico personaggio femminile, che viene completamente tagliato. Inutile dirlo, in questo caso, ad essere considerato corretto dalla politica in vigore – la Repubblica Islamica di Khomeini – non è, come sarebbe da noi, l’assenza e la rimozione di Ofelia, della donna; al contrario, è la sua presenza che viene considerata offensiva ed è quindi necessario rimuoverla dalla produzione cinematografica, assecondando il regime vigente.  «Per loro, tutto è offensivo – sostiene con ardore un’allieva –. Politicamente o sessualmente scorretto».

Forse, quindi, l’eufemismo sarebbe proprio descrivere quest’azione come un’espressione di ciò che è politicamente corretto, invece di parlare di censura in nome del politicamente corretto.