«In Siria rimarremo al nostro posto nel segno della riconciliazione»

Frate Patton, che cos’è la Custodia di Terra Santa?
«La Custodia di Terra Santa è una provincia francescana nata come missione per volontà di san Francesco nel 1217. Nel 1342 ha ricevuto da papa Clemente VI il mandato di custodire i luoghi santi cristiani in Terra Santa. Attualmente è composta da circa 300 frati di 60 nazionalità diverse, sparsi sul territorio di 11 Paesi: Israele, Palestina, Egitto, Giordania, Libano, Siria, Cipro, Rodi, Italia, USA e Argentina. Oltre a curare i luoghi santi - circa 80 santuari - svolgiamo servizi pastorali in parrocchie, e servizi sociali quali scuole e attività a servizio dei migranti, dei profughi e dei rifugiati».
Quali funzioni svolge il Custode?
«Il Custode cerca di aiutare i frati a vivere la loro vocazione, in modo tale che poi le varie attività siano portate avanti in maniera ordinata e dentro un progetto complessivo. Tecnicamente, è un ordinario, cioè il superiore gerarchico di una provincia religiosa. Rappresenta poi la Chiesa cattolica nelle relazioni con i Greci ortodossi e gli Armeni apostolici nei santuari soggetti a status quo: Santo Sepolcro a Gerusalemme, Natività a Betlemme e altri. Di fatto, poi, svolge anche una serie di altre funzioni, dal liturgico al formativo, al politico-diplomatico. Il suo compito principale, tuttavia, è animare la vita e la missione dei frati che gli sono affidati».
Qual è il senso della presenza dei francescani in Paesi quali Israele, Siria e Giordania?
«Nel 1217, quando san Francesco ha mandato i primi frati “oltremare”, ha pensato a una missione rivolta soprattutto ai musulmani. Ancora oggi, di fatto, in Israele e Palestina, in Egitto e Giordania, in Libano e Siria la nostra è una presenza di inserimento in un contesto a maggioranza musulmana. San Francesco pensava che fosse bene offrire ai musulmani la testimonianza della vita cristiana in forma semplice e pacifica, e così è stato. Oggi, in Israele, la nostra testimonianza va ovviamente anche verso gli ebrei. In Israele, Palestina, Giordania e Siria siamo anche custodi dei luoghi santi cristiani che lì si trovano. Ciò vuol dire essere presenti come fraternità internazionale che vive e prega nei luoghi santi e accoglie i pellegrini».
Qual è la situazione attuale nella «Terra di Gesù»?
«È quella che si sperimenta nel pellegrinaggio, cioè di una terra in cui ha origine la nostra fede, dove possiamo leggere il Vangelo in modo tridimensionale, dove possiamo incontrare tante persone di cultura, lingua e religione diverse. Può essere anche quella piena di contraddizioni che abbiamo visto o di cui leggiamo sui giornali, in cui scopriamo che ci sono problemi trascinati da decenni e mai risolti, scontri politici e sociali, polarizzazioni politiche e religiose. La situazione, in Terra Santa, è sempre complessa e non riducibile a semplificazioni. Nello stesso giorno si può incontrare il beduino che ti offre il tè sotto la sua tenda e il colono che ti minaccia nel cortile di un santuario e ti invita a tornare al tuo Paese perché quella terra è “sua”; si può incontrare il pio ebreo che va a pregare al Kotel, il cosiddetto muro del pianto, e il fondamentalista islamista che pensa di dar lode a Dio attraverso l’uso della violenza; è la terra in cui i cristiani sono più uniti che nel resto del mondo, anche se le Chiese sono ancora divise. È una terra che non si può descrivere in una frase e neanche in un libro».
È preoccupato per la situazione in Siria? Teme che l’avvento al potere dei jihadisti possa causare nuove sofferenze ai cristiani?
«Ho una visione moderatamente positiva sul futuro della Siria. Nelle ultime settimane c’è stata un’accelerazione dei processi: il gruppo chiamato Hayat Tahrir al-Sham è fuoriuscito dalla regione di Idlib e ha occupato rapidamente la regione di Aleppo, poi Hama, Homs e, infine, Damasco. Conoscevamo già queste milizie proprio perché nella regione di Idlib, come Custodia di Terra Santa, abbiamo due frati che si occupano della cura pastorale dei cristiani della Valle dell’Oronte. Sia a Idlib, sia ad Aleppo, sia a Damasco i capi di queste milizie hanno assicurato il rispetto delle minoranze religiose e hanno espresso la volontà di far nascere una Siria nella quale ci sia posto e rispetto per tutti. I nostri confratelli sono moderatamente ottimisti nello sperare e nel ritenere che queste promesse possano essere rispettate, data l’evoluzione di questo gruppo jihadista che avevano già sperimentato nei villaggi dell’Oronte. Ovviamente, bisognerà aspettare almeno alcune settimane perché la situazione si stabilizzi, e bisognerà vedere anche quale sarà l’evoluzione sul campo, quale capacità avrà il nuovo leader siriano Abu Mohammad al-Jolani di tenere a bada le fazioni più estremiste. In ogni modo, i nostri frati rimarranno ai loro posti a sostegno della piccola minoranza cristiana, disponibili a dare un contributo al dialogo, alla riconciliazione e anche a offrire contenuti culturali che aiutino la Siria a maturare un futuro inclusivo e non settario. Personalmente, credo che per rimettersi in piedi dopo 14 anni di guerra civile e di sanzioni internazionali, la Siria avrà bisogno dell’aiuto e del sostegno non solo dei vicini Paesi islamici, che hanno evidenti interessi in loco, ma anche dei Paesi europei e degli USA, per non essere risucchiata dalla tentazione di riorganizzarsi su un modello fondamentalista».
In un passaggio del suo libro lei dice: «Il cristiano in Terra Santa ha [...] un vantaggio oggettivo: la sua fede è svincolata dall’appartenenza etnica. Il cristiano può essere arabo, israeliano, greco, filippino, etiope, armeno. Deve rifuggire dunque naturalmente dalla tentazione dell’identitarismo politico». Che cosa significa, esattamente?
«Significa che il cristiano ha nel proprio DNA gli anticorpi per non lasciarsi intrappolare in ideologie nazionalistiche che trasformano la religione in supporto ideologico di questo o di quel progetto politico e che trasformano frequentemente l’identificazione etnica con un progetto politico discriminatorio. L’universalità del cristianesimo, in greco si dice “cattolicità”, porta i cristiani a essere in modo naturale tessitori di dialogo e costruttori di ponti tra culture. Quando invece anche i cristiani abbracciano in modo acritico le identità etniche o nazionali, finiscono per rimanere soffocati da questa prospettiva e si snaturano. Ai cristiani di Terra Santa io ricordo, ogni qualvolta posso, che la loro caratteristica è proprio questa: essere cristiani di Terra Santa. E allora, possono celebrare insieme e vivere relazioni fraterne anche se sono di origine palestinese, ebraica, armena, greca, filippina, o di qualsiasi altro Paese del mondo. Altrimenti, è facile che anche i cristiani si lascino trascinare dentro i conflitti che minano le relazioni tra i loro mondi di origine e appartenenza».
Che rapporti ha il Custode di Terra Santa con i musulmani?
«Io amo ricordare sempre che le relazioni sono tra persone. In modo provocatorio vorrei dire che non ho relazioni con i musulmani, ma ho moltissime relazioni con persone che professano l’Islam. Queste relazioni sono perlopiù buone; con alcuni sono di collaborazione, con altri anche di amicizia fraterna. Uno dei nostri più fedeli e devoti collaboratori in questi anni è stato l’architetto Osama Hamdan, che purtroppo il cancro si è portato via un anno fa. Era un allievo di padre Michele Piccirillo (francescano, archeologo, già capo della spedizione di Umm al-Rasas, in Giordania, ndr) ed era il nostro architetto di fiducia, ma anche una persona di grande sensibilità, uno di famiglia tra i frati della Custodia, un fratello».
E con gli ebrei?
«Vale lo stesso discorso: le relazioni sono di tipo personale e ce ne sono molte positive, sia con ebrei religiosi sia con ebrei secolari. Ad Ain Karem, fino al 2023, organizzavamo giornate di conoscenza reciproca che spero possano riprendere quanto prima. Poi, ovviamente, le relazioni sono difficili con chi pensa che noi non abbiamo diritto a stare in Terra Santa perché essa apparterrebbe solo al popolo eletto, concetto di cui hanno peraltro una visione parziale e poco aderente al testo biblico».
A proposito del conflitto israelo-palestinese, lei dice nel suo libro (citando Rachel Goldberg Polin) che soltanto «la mutua comprensione della dignità della sofferenza degli uni e degli altri potrà aprire le porte a una effettiva accettazione reciproca e a una conseguente pacificazione». Pensa che dopo quasi 80 anni di guerra sarà possibile fare un passo in questa direzione?
«Ci vorrà sicuramente molto tempo. Credo qualche generazione. Il conflitto di questo ultimo anno ha diffuso così tanto odio e desiderio di vendetta che servirà tempo per bonificare l’ambiente. Soprattutto, sarà necessario chiedere a Dio che doni ai popoli che vivono in Terra Santa leader spirituali, politici e morali con una visione del futuro più ispirata alle profezie pacifiste di Isaia che non alle prospettive di continua belligeranza dei libri di Giosuè e dei Giudici. Perché possa esserci pace è necessario coltivare una cultura dell’accettazione dell’altro, e questo non si può fare senza quelle caratteristiche di cui parlava Giovanni XXIII nella Pacem in Terris, l’enciclica in cui ricordava come per l’edificazione della pace è necessario che ci siano giustizia e verità, libertà e amore. Giovanni Paolo II aggiungeva che “Non c’è pace senza giustizia, e non c’è giustizia senza perdono”. Per arrivare a papa Francesco, il quale parla del coltivare l’amicizia sociale. Di fatto, bisogna sostituire la cultura della deterrenza, che si basa sulla paura, con la cultura della fiducia, che offre uno sguardo diverso degli uni sugli altri».
E quale ruolo può avere la Chiesa cattolica nella soluzione del conflitto mediorientale?
«Sicuramente un ruolo spirituale, nel senso che per la pace è necessario pregare fino allo sfinimento, sapendo che è Gesù risorto a donare la pace, quella vera, quella che porta anche alla riconciliazione. Poi c’è il contributo concreto dei cristiani che in Medio Oriente sono una minoranza e non costituiscono una minaccia per alcuno, e proprio per questo possono fare da ponte e da elemento che riavvicina e riconcilia culture diverse».
Lei dice: «Ho visto il passaggio dalla guerra combattuta a quella che viene cinicamente chiamata “guerra a bassa intensità”. Ho visto la distruzione, il dolore, la sofferenza, la fame. Soprattutto, ho visto quanta distanza ci sia tra la fotografia, la narrazione, e la realtà della guerra toccata con mano». Pensa che per capire la guerra si debba viverla?
«Penso che oggi, in Europa, troppi abbiano dimenticato gli orrori della guerra e che si dovrebbe recuperare la memoria non solo della Shoà ma dei disastri di tutte le guerre e gridare assieme a papa Francesco: mai più la guerra, mai più».
Come dice il Papa nell’introduzione al suo libro, lei ha un cognome da generale yankee ma è un mite frate del Nord-Est italiano, convinto tra l’altro della regola che limita temporalmente i mandati di governo tra i francescani. È questa la lezione del santo di Assisi? Essere umili, essere sempre a servizio degli altri?
«La lezione di san Francesco è che siamo chiamati a vivere secondo la forma del Vangelo; quindi, ci sono circostanze e situazioni nelle quali dobbiamo essere umili e al servizio di tutti, certe volte bisogna anche essere fermi e forti per non rinnegare la propria fede, e sempre avere la coscienza che se Dio è Padre di tutti, Gesù Cristo è morto per salvare tutti e lo Spirito soffia dove vuole, allora siamo chiamati a riconoscere in ciascuna persona, anche in chi appartiene a un’altra religione, un figlio di Dio e un fratello».
E che cosa insegna, ancora oggi, san Francesco?
«A fidarci di Dio sempre, a vivere quindi da figli di Dio, liberi da qualsiasi paura».