Io, avvocata ticinese, vi spiego il mio lavoro lontano dal grande schermo
Un racconto di formazione. Così la regista e sceneggiatrice Victoria Musiedlak descrive il suo Première affaire, che indaga nella psiche di una giovane avvocata neo-laureata catapultata nel suo primo caso penale. Perché il mondo, là fuori, può essere un posto davvero brutale e i legali, nella loro professione, possono ritrovarsi ad avere a che fare con brutalità e violenze. Esiste un momento in cui tutto questo può far vacillare la scelta della professione? Lo abbiamo chiesto all’avvocata Fabiola Malnati, 39 anni, che esercita all'interno dello Studio legale e notarile avv. Fulvio Pezzati con sede a Lugano. «La mia esperienza è differente dal modo in cui il nostro lavoro viene percepito all’esterno – spiega –. Le persone, quando hanno che fare con un avvocato, immaginano quello che vedono nelle sitcom. Ma la nostra attività è molto diversa. Non si può pensare di rivolgersi a un difensore e pretendere di trovare una soluzione a tutto, compreso il “pasticcio più grande”».
Il praticantato dell’avvocata Malnati si è svolto in uno studio prettamente civilista. «È stato il penale a scegliere me, non il contrario. Ma sono convinta che nulla accada per caso e il destino ha voluto così. Una carriera che oggi mi rende molto felice». Le difficoltà non sono mancate. O, meglio, quelle intime riflessioni che la giovane Nora porta sul grande schermo hanno pervaso anche i pensieri dell’avvocata ticinese.
Il ruolo «sociale» dell'avvocato
In particolare, ricorda un caso legato all’abuso di sostanze stupefacenti in cui erano coinvolti alcuni giovanissimi, pure minorenni. «Sulla carta sembrava un caso comune, ma nella realtà si è rivelato altro. Le indagini hanno scoperchiato un sottobosco di profondo disagio giovanile». Ragazze che avevano subito abusi, altre che «conducevano una vita per la loro età assolutamente troppo libertina». Giovani «completamente allo sbando» e già al beneficio di prestazioni assistenziali le cui giornate erano scandite dall’uso di droghe e alcol, in un ozio totale. «È stato uno dei primi casi in cui mi sono ritrovata a dover operare e mi ha fatto molto riflettere – ammette l’avvocata –. Io non sono madre, ma mi sono domandata se i genitori di quei ragazzi si rendessero conto di quanto i loro figli fossero allo sbaraglio. Mi sono ritrovata con adulti che talvolta giustificano le loro azioni o ne minimizzavano il comportamento». Insomma, al di là dei reati penali c’era pure una realtà gigantesca, un mondo troppo grande per un’età così giovane. «Un ambito familiare da correggere, persone che dovevano aprire gli occhi perché a 20 anni si è giovani ma non troppo per perdersi e non ritrovarsi mai più». La realtà è che, nei successivi anni di carriera, l’avvocata Malnati ha scoperto che simili situazioni non sono purtroppo così rare. «Tutto questo attiva una riflessione sul ruolo “sociale” del legale. Trascorri mesi in cui conduci il cliente lungo l’inchiesta e poi al processo. È come se in minima parte, seppure da fuori, ti sostituissi a una figura quasi genitoriale».
È anche per questo che l’avvocata ha imparato nel suo percorso ad abbracciare un approccio «molto distaccato». «Lo so che è un po’ crudo – ammette –, ma preferisco mettere subito il mio assistito di fronte allo scenario peggiore, prospettando possibilità per migliorarlo o risolverlo. Da una parte ho la persona che ha bisogno di essere rappresentata, dall’altra conosco i possibili risvolti del processo, dalla pena al proscioglimento. Non voglio ritrovarmi di fronte a una condanna inaspettata, perché l’illusione è il male peggiore che si possa fornire, con il rischio di finire poi nel baratro».
L'opinione personale? No, si applica la legge
Malnati si è ritrovata a dover rappresentare in aula anche soggetti responsabili di atti sessuali con fanciulli. E le è capitato di esortare la corte «a fare uno sforzo di empatia nel giudicare una persona disturbata, affetta da una turbe psichiatrica, la pedofilia». Fattori che «costituiscono una (lieve) scemata imputabilità» e quindi una commisurazione della colpa. «Quando si ha a che fare con un pedofilo, l’istinto è di pensare alla “forca”. E ci mancherebbe, le vittime sono più che innocenti. Ma il ruolo dell’avvocato non è quello di mischiarsi all’opinione pubblica. Noi siamo lì perché è giusto che venga condannato, ma deve essere applicata la legge. Una legislazione pensata dallo Stato che ha creato il diritto. E che contempla il fatto che l’imputato possa commettere degli atti senza comprenderne totalmente la portata. In quel momento io sono uno strumento».
Come proteggere la psiche, dunque, dalla «bruttezza» del mondo? Fabiola Malnati ha trovato il suo personale modo di tutelarsi: non familiarizzare troppo con i casi. «Lo ripeto, noi siamo uno strumento. Non posso permettermi di “portare a casa” tutto, altrimenti rischierei di non svolgere al meglio il mio lavoro. Io devo avere una visione a 360 grandi del ventaglio di possibilità che la legge prevede e riuscire ad applicarla». Un’impresa non sempre facile. «Una volta mi è successo di immedesimarmi in una ragazza, o meglio di prendere particolarmente a cuore la sua situazione. Era una giovane madre con un bimbo malato a cui serviva denaro per le cure. Le avevano chiesto di portare un’auto dall’Albania attraverso l’Italia e poi più a Nord. Non le avevano ovviamente parlato del carico, rivelatosi poi di eroina, e quando ha iniziato a porre domande e ha tentato di tirarsi indietro, è stata minacciata. Solitamente, quando un cliente ti racconta la sua versione tendi a “prenderla con le pinze”, perché cerca di giustificarsi. Nel suo caso le ho creduto e ho provato empatia, perché era effettivamente disperata e queste organizzazioni criminali puntano proprio su quello». La giuria e il giudice stesso, vista la sentenza, hanno preso a cuore quella situazione. «Ho fatto mia quella vicenda, ma ho imparato anche da quello. E non mi è mai più successo di “affezionarmi” in quel modo».