L'intervista

Io, avvocata ticinese, vi spiego il mio lavoro lontano dal grande schermo

«Première affaire», proiettato in Piazza Grande, è un giallo anomalo e insieme un racconto di formazione in cui Nora, avvocata 26.enne, si ritrova ad affrontare sul campo tutte quelle insidie dell’animo umano che i gialli sanno ben mettere a fuoco – Abbiamo intervistato l'avvocata di Lugano Fabiola Malnati
Una scena tratta da «Première affaire», in cui la giovane avvocata Nora deve rappresentare un giovane accusato di omicidio. ©Martin Rit
Jenny Covelli
10.08.2023 06:00

Un racconto di formazione. Così la regista e sceneggiatrice Victoria Musiedlak descrive il suo Première affaire, che indaga nella psiche di una giovane avvocata neo-laureata catapultata nel suo primo caso penale. Perché il mondo, là fuori, può essere un posto davvero brutale e i legali, nella loro professione, possono ritrovarsi ad avere a che fare con brutalità e violenze. Esiste un momento in cui tutto questo può far vacillare la scelta della professione? Lo abbiamo chiesto all’avvocata Fabiola Malnati, 39 anni, che esercita all'interno dello Studio legale e notarile avv. Fulvio Pezzati con sede a Lugano. «La mia esperienza è differente dal modo in cui il nostro lavoro viene percepito all’esterno – spiega –. Le persone, quando hanno che fare con un avvocato, immaginano quello che vedono nelle sitcom. Ma la nostra attività è molto diversa. Non si può pensare di rivolgersi a un difensore e pretendere di trovare una soluzione a tutto, compreso il “pasticcio più grande”».

Il praticantato dell’avvocata Malnati si è svolto in uno studio prettamente civilista. «È stato il penale a scegliere me, non il contrario. Ma sono convinta che nulla accada per caso e il destino ha voluto così. Una carriera che oggi mi rende molto felice». Le difficoltà non sono mancate. O, meglio, quelle intime riflessioni che la giovane Nora porta sul grande schermo hanno pervaso anche i pensieri dell’avvocata ticinese.

Il ruolo «sociale» dell'avvocato

In particolare, ricorda un caso legato all’abuso di sostanze stupefacenti in cui erano coinvolti alcuni giovanissimi, pure minorenni. «Sulla carta sembrava un caso comune, ma nella realtà si è rivelato altro. Le indagini hanno scoperchiato un sottobosco di profondo disagio giovanile». Ragazze che avevano subito abusi, altre che «conducevano una vita per la loro età assolutamente troppo libertina». Giovani «completamente allo sbando» e già al beneficio di prestazioni assistenziali le cui giornate erano scandite dall’uso di droghe e alcol, in un ozio totale. «È stato uno dei primi casi in cui mi sono ritrovata a dover operare e mi ha fatto molto riflettere – ammette l’avvocata –. Io non sono madre, ma mi sono domandata se i genitori di quei ragazzi si rendessero conto di quanto i loro figli fossero allo sbaraglio. Mi sono ritrovata con adulti che talvolta giustificano le loro azioni o ne minimizzavano il comportamento». Insomma, al di là dei reati penali c’era pure una realtà gigantesca, un mondo troppo grande per un’età così giovane. «Un ambito familiare da correggere, persone che dovevano aprire gli occhi perché a 20 anni si è giovani ma non troppo per perdersi e non ritrovarsi mai più». La realtà è che, nei successivi anni di carriera, l’avvocata Malnati ha scoperto che simili situazioni non sono purtroppo così rare. «Tutto questo attiva una riflessione sul ruolo “sociale” del legale. Trascorri mesi in cui conduci il cliente lungo l’inchiesta e poi al processo. È come se in minima parte, seppure da fuori, ti sostituissi a una figura quasi genitoriale».

Ho imparato ad applicare un approccio «molto distaccato»

È anche per questo che l’avvocata ha imparato nel suo percorso ad abbracciare un approccio «molto distaccato». «Lo so che è un po’ crudo – ammette –, ma preferisco mettere subito il mio assistito di fronte allo scenario peggiore, prospettando possibilità per migliorarlo o risolverlo. Da una parte ho la persona che ha bisogno di essere rappresentata, dall’altra conosco i possibili risvolti del processo, dalla pena al proscioglimento. Non voglio ritrovarmi di fronte a una condanna inaspettata, perché l’illusione è il male peggiore che si possa fornire, con il rischio di finire poi nel baratro».

L'opinione personale? No, si applica la legge

Malnati si è ritrovata a dover rappresentare in aula anche soggetti responsabili di atti sessuali con fanciulli. E le è capitato di esortare la corte «a fare uno sforzo di empatia nel giudicare una persona disturbata, affetta da una turbe psichiatrica, la pedofilia». Fattori che «costituiscono una (lieve) scemata imputabilità» e quindi una commisurazione della colpa. «Quando si ha a che fare con un pedofilo, l’istinto è di pensare alla “forca”. E ci mancherebbe, le vittime sono più che innocenti. Ma il ruolo dell’avvocato non è quello di mischiarsi all’opinione pubblica. Noi siamo lì perché è giusto che venga condannato, ma deve essere applicata la legge. Una legislazione pensata dallo Stato che ha creato il diritto. E che contempla il fatto che l’imputato possa commettere degli atti senza comprenderne totalmente la portata. In quel momento io sono uno strumento».

Non affezionarsi è la chiave

Come proteggere la psiche, dunque, dalla «bruttezza» del mondo? Fabiola Malnati ha trovato il suo personale modo di tutelarsi: non familiarizzare troppo con i casi. «Lo ripeto, noi siamo uno strumento. Non posso permettermi di “portare a casa” tutto, altrimenti rischierei di non svolgere al meglio il mio lavoro. Io devo avere una visione a 360 grandi del ventaglio di possibilità che la legge prevede e riuscire ad applicarla». Un’impresa non sempre facile. «Una volta mi è successo di immedesimarmi in una ragazza, o meglio di prendere particolarmente a cuore la sua situazione. Era una giovane madre con un bimbo malato a cui serviva denaro per le cure. Le avevano chiesto di portare un’auto dall’Albania attraverso l’Italia e poi più a Nord. Non le avevano ovviamente parlato del carico, rivelatosi poi di eroina, e quando ha iniziato a porre domande e ha tentato di tirarsi indietro, è stata minacciata. Solitamente, quando un cliente ti racconta la sua versione tendi a “prenderla con le pinze”, perché cerca di giustificarsi. Nel suo caso le ho creduto e ho provato empatia, perché era effettivamente disperata e queste organizzazioni criminali puntano proprio su quello». La giuria e il giudice stesso, vista la sentenza, hanno preso a cuore quella situazione. «Ho fatto mia quella vicenda, ma ho imparato anche da quello. E non mi è mai più successo di “affezionarmi” in quel modo».

La recensione: Première affaire è un giallo anomalo e insieme un racconto di formazione. Nora, avvocata, 26 anni (la giovane attrice in ascesa Noée Abita, che praticamente regge tutto il film), lavora in uno studio legale. È diligente e piena di buone intenzioni, ma non ha mai affrontato sul campo tutte quelle insidie dell’animo umano che i gialli sanno ben mettere a fuoco. Quando il capo la incarica a sorpresa di occuparsi di un cliente in stato di fermo alla polizia, lei va. Il fermato è un giovane in apparenza impaurito e disarmato, accusato di aver massacrato una vicina di casa. Scatta l’empatia di Nora che, da lì in poi, commetterà un errore di valutazione dopo l’altro: il primo e fondamentale invaghirsi del poliziotto che interroga l’accusato. Nonostante ciò, alla fine imparerà la lezione e, cambiato look e presentandosi come una guerriera, affronterà il suo secondo caso.Alla regista Victoria Musiedlak le potenzialità non mancano: ha buona capacità di narrare coinvolgendo il pubblico, occhio clinico nella scelta dei volti dei personaggi e sa ben amalgamare i dettagli nel racconto. Però mostra una certa confusione nel far progredire la trama, non riesce bene a far capire quanto tempo passa tra un avvenimento e l’altro e – soprattutto – è il motore dell’azione a non essere credibile a livello di sceneggiatura. Infatti la protagonista disattende clamorosamente (anche se sappiamo che all’amor non si comanda) la prima regola di ogni fiction processuale, e cioè che le parti non devono avere contatti tra loro al di fuori di quelli istituzionali. Si può capire che l’ingenua Nora possa essere attratta dal bel poliziotto, anche se con un lato oscuro, interpretato dall’attore norvegese Anders Danielsen Lie (La persona peggiore del mondo), ma per la penalista di belle speranze come lei l’errore, o forse la scelta di trasgressione che abbraccia con più o meno consapevolezza, è imperdonabile. Certo, bisogna tener conto che in un film appartenente ad un genere tradizionalmente declinato al maschile, ma qui diretto e interpretato con sensibilità femminile, ci può stare il ribaltamento dei ruoli: se nei classici è spesso il detective a deragliare perché cede al fascino della femme fatale, stavolta è il contrario. Ma non basta il cambio di prospettiva per assolvere del tutto un film piuttosto debole per la Piazza. Soprattutto dopo aver visto solo pochi giorni fa il calibratissimo Anatomie d’une chute, Palma d’oro a Cannes. Marisa Marzelli 
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