«Io, uomo "più in alto" della Terra, racconto gli ottomila»
Sanu Sherpa, a 47 anni, è diventata l'unica persona al mondo ad aver raggiunto la vetta delle 14 montagne più alte almeno due volte. Un passo dopo l'altro, dal 2006 all'estate 2022, è salito e sceso con le sue gambe dagli ‘Ottomila’ della Terra. Una stella dell'alpinismo, che però—al contrario di altri suoi colleghi ben più famosi—non gode di particolare attenzione da parte di grandi marchi, organizzazioni o aziende internazionali, che sono soliti finanziare imprese del genere. Anzi. L'uomo, che in questi giorni è in Ticino per una serie di conferenze organizzate dall'associazione Mani per il Nepal, nelle sue spedizioni ha sempre avuto il ruolo di guida, conducendo gruppi di persone affascinate dalla vita ad alta quota sulle cime più spettacolari. «Avrei fatto a meno della maschera d'ossigeno, ma hai una certa responsabilità nei confronti dei clienti. Devi rispettare le regole e prendere tutte le precauzioni», confida il nepalese, sorseggiando dell'acqua calda dalla tazza appena servita dal cameriere, rimirando l'assolata piazza Grande di Locarno. Oggi, mercoledì, si sottoporrà a una serie di esami al Cardiocentro, a cura di Andrea Capelli (che saranno riportati non appena disponibili, ndr).
Mai avrebbe detto che, un giorno, il suo destino sarebbe stato 'con la testa tra le nuvole'. La sua vita, infatti, avrebbe potuto prendere una piega molto diversa. «Sono nato in un villaggio nella valle del Malaku, nel distretto di Sankhuwasabha», si affretta a tradurre per lui Dawa Sherpa. «Sherpa è la nostra etnia, non il nostro cognome. Il mio cognome è Khamba, ma non lo usiamo mai. Solo il nome e 'Sherpa'. Ci sono tante etnie in Nepal, la nostra è a est. Ai piedi della catena dell'Himalaya, che attraversa tutto il Paese. Infatti il nome deriva da ‘Sher’, est, e ‘pa’, persone», dice.
«Ero destinato a diventare pastore. La mia famiglia era povera. Avevamo delle pecore, i miei genitori erano contadini e davo loro una mano. Sono andato avanti qualche anno con quella vita. Ma poi, alcuni miei amici sono andati a Kathmandu. In paese non c'era possibilità di lavorare e poter guadagnare qualcosa. Di fronte a questa povertà, ho deciso di partire anch'io, anche se sapevo che i miei non mi avrebbero lasciato. Ma io volevo fare qualcosa di nuovo, cercare lavori e stimoli nuovi. E, soprattutto, dimostrare alla mia famiglia di essere in grado di provvedere a me stesso e al mio futuro». Sanu, a 31 anni, parte così per la capitale. I suoi conoscenti hanno già avuto qualche esperienza nel settore turistico come portatori. A lui sembrava proprio la strada giusta da imboccare, anche perché il mondo delle montagne lo affascina da sempre.
Ma, questa volta, non si sarebbe limitato a guardarle dal basso verso l'alto pascolando un gregge di pecore...
Un anno da portatore
«Ho fatto diversi lavori: aiuto cuoco, facchino. Poi, per circa un anno, portatore», racconta. «Si deve trasportare tutto l'occorrente sulle spalle. Parliamo di trenta, quaranta chili: cibo, tende, equipaggiamento... dato che non ci sono strade oltre un certo punto. Una missione come portatore, però, si conclude ben al di sotto della cime delle montagne più gigantesche. Di norma, non si va oltre i 6.500 metri, per i cosiddetti 'trekking peak' che si possono completare in un giorno. Oppure fino ai vari campi base. Nel settore del turismo, questa è una professione che non richiede abilità particolari. Poi, com'è successo a me, piano piano si iniziano a conoscere le guide. Se ti fai notare e lavori forte, ci sono buone probabilità che qualcuno ti possa invitare alle spedizioni vere e proprie».
Anche nelle spedizioni si porta comunque del peso, indica Sanu. «Ma molto meno, perché si sale ad alta quota e sarebbe impossibile. Per questo esistono i campi base». Le spedizioni sono più lunghe, più complicate, più pericolose. Bisogna conoscere molto bene tutta l'attrezzatura. E saperla usare alla perfezione. «Ci vuole più tempo anche per acclimatarsi. Sia nella salita sia nella discesa, il corpo si deve abituare. Altrimenti si rischia di stare male, anche solo per l'altitudine».
La prima spedizione: 8.188 metri
E così, a 32 anni, Sanu parte per la sua prima spedizione: Cho Oyu, 8.188 metri. «È stato bello, ma anche duro. La sensazione che si prova, una volta sulla cima, ripaga tutta la fatica. Senza dimenticare che, per tutto questo, si rischia anche la vita». La prima spedizione si conclude senza problemi. E, intanto, continuano ad arrivare richieste da altri clienti per raggiungere altre vette. «Il lavoro che avevo svolto, fisicamente molto pesante, era ben apprezzato».
Sanu, spedizione dopo spedizione, è messo alla prova in mille modi. «È capitato parecchie volte di restare fermo in quota per diverse ore. Anche senza mangiare o bere. Però mi è sempre piaciuto questo lavoro. Nei gruppi che ho portato, finora non è successo mai niente di grave. Anche se ho visto parecchi incidenti. Sia ai clienti, sia ai portatori, sia alle guide che avevano prestato i primi soccorsi... Può capitare di tutto. Compreso chi non si sente bene o ha solo del mal di montagna. D'altronde, non è che uno sa di andare fin lassù in modo facile. Bisogna avere anche la fortuna di essere fisicamente forti e di non avere il problema dell'altitudine».
Nonostante tutti gli ostacoli, non è mai rimasto impressionato da tutte le situazioni negative che hanno comportato, in alcuni casi, anche la morte. «Nel percorso capita di imbattersi nei corpi di chi non ce l'ha fatta ed è rimasto lì». Ma mentre gusta l'ultimo goccio della sua acqua ormai tiepida al tavolino del ristorante, la sua mente corre al 2010. L'unico brutto incidente capitato a un gruppo che stava conducendo.
Due morti
«Eravamo sul Manaslu. L'ottava montagna più alta del mondo, con i suoi 8.163 metri. Stavamo scendendo a valle dopo essere stati in vetta. C'erano nove clienti, nel mio gruppo. Coreani. Ah, quella volta mi ero preoccupato davvero tanto—esclama, ricordando uno dei momenti più drammatici della sua carriera—. Il tempo era bruttissimo. Non vedevi neanche un passo davanti a te. Era buio, nebbioso. C'era tantissimo vento, neve. È lì che ho perso due persone, due miei amici. Non erano dei novellini, erano alpinisti esperti. Erano anche meno stanchi degli altri e avevano deciso, quindi, di andare avanti. Non ho saputo né visto cosa sia successo. So solo che a un certo punto non li abbiamo più visti. Il corpo di una persona è stato trovato dopo un anno. Del secondo si sono perse completamente le tracce, almeno finora. Si presume sia morto anche lui.
Nelle 52 spedizioni della sua vita, delle quali 39 fino alla vetta, questa è l'unica esperienza negativa vissuta sulla sua pelle, in un gruppo sotto la sua responsabilità.
Tanta fortuna
Ma non ci sono solo ricordi negativi. Sanu ha presente due spedizioni in particolare. «Quella del Cho Oyu, nel 2006. Era davvero un bell'ambiente, tanti amici, un tempo perfetto. Avevamo 19 clienti ed eravamo io e un altro nepalese a guidarli. Quando ero arrivato in cima ero così felice! La vetta in sé, poi, è in Tibet. Una vista davvero spettacolare, quel giorno. Un'altra montagna della quale serbo una bella esperienza è il Manaslu nel 2011, con otto coreani e cinque nepalesi a guidarli. Ecco, queste due spedizioni, di tutte quelle che ho vissuto, sono quelle nelle quali ho avuto più fortuna sotto tutti gli aspetti».
La fortuna, già. Ma anche il rispetto per la montagna, la conoscenza dell'ambiente, del terreno, dell'attrezzatura. Sono temi ricorrenti, nelle parole di Sanu. Che guarda con un misto di delusione e preoccupazione alla clientela che si presenta ai piedi dell'Everest di turno senza la preparazione adatta, né mentale né fisica. «Non sono solo loro a rischiare la vita. Ci muoviamo in gruppo, insieme ad altre persone. E ci siamo anche noi guide che, a volte, possiamo rimetterci la pelle».
«Finora sono stato sempre fortunato—conclude Sanu—. Ho partecipato a molte spedizioni e, quando era possibile, sono sempre arrivato in cima, sulla vetta, senza nessun problema. E questa è una vera fortuna».