Presidenziali USA

Kamala Harris è l'unica alternativa possibile a Joe Biden

Se il presidente dovesse lasciare, con ogni probabilità nella corsa subentrerebbe la vice – Lo storico Daniele Fiorentino: «Potrebbe permettere al Partito democratico di recuperare parte dei voti di alcune minoranze»
© KEYSTONE (AP Photo/Matt Kelley)
Dario Campione
04.07.2024 21:30

«Se dovessi descrivere quanto sta accadendo, parlerei di una situazione di stallo. Che ci sia un problema è fuor di dubbio. Il punto è che questo problema esisteva prima ancora che la campagna elettorale cominciasse. Adesso, purtroppo, sembra essersi aggravato». Daniele Fiorentino, ordinario di Storia e istituzioni degli Stati Uniti d’America all’Università di Roma Tre, commenta con il CdT la fase convulsa in cui si agitano, in questo momento, la politica e la società americane. Dopo il disastroso esito del confronto con il rivale repubblicano Donald Trump, il presidente Joe Biden è sotto il tiro incrociato di una parte dell’opinione pubblica e del suo stesso partito. Molti gli chiedono di lasciare. Ma che cosa sta davvero succedendo?

«È davvero difficile dirlo - spiega Fiorentino - quello che arriva a noi, ovviamente, è filtrato dall’apparato dello stesso Biden. Sin qui, il Partito democratico ha sostenuto il presidente in carica, com’è tradizione nella storia degli Stati Uniti. D’altronde, mettere da parte o chiedere a un presidente che si faccia da parte non è mai stato un aspetto incoraggiante e positivo per la democrazia americana».

C’è un precedente, sottolinea lo storico di Roma Tre. «È quello di Lyndon Johnson. Anch’egli era stato il vice di un personaggio glamour, capace di attrarre il consenso in maniera istintiva, John Fitzgerald Kennedy, al quale subentrò dopo l’attentato di Dallas. Da presidente, Johnson condusse con grande successo una politica interna sociale e di allargamento del welfare, a sostegno, soprattutto, delle minoranze; ma, nel frattempo, aveva anche inviato in Vietnam 500 mila soldati, coinvolgendo il Paese in un fallimento tragico. Il 31 marzo del 1968 annunciò che non avrebbe corso per un altro mandato. In un anno terribile per gli Stati Uniti, un anno in cui furono assassinati Martin Luther King e Robert Kennedy, alla fine i democratici furono costretti a candidare il vice di Johnson, Hubert Humphrey, il quale fu sconfitto da Richard Nixon».

Rinunciare al presidente in carica, insiste Daniele Fiorentino, «significa ammettere che c'è una situazione critica, grave. Questo, io credo, è uno dei motivi principali per cui il partito ha fin qui sostenuto Biden. Inoltre, bisognerebbe comunque trovare un sostituto disposto a farsi buttare addosso da Trump tonnellate di fango. Non è semplice. Vero è che, adesso, le possibilità che Biden sia sostituito sono aumentate. Fino al dibattito in Tv non ci ho creduto, ero convinto che Biden sarebbe arrivato sino in fondo. Oggi mi sento di dire che c’è un un 30% di possibilità che accada. Molto dipenderà dai prossimi giorni, da come la famiglia, i suoi consiglieri, lo indirizzeranno. Non va dimenticato che Biden è un uomo molto risoluto, determinato. Lo ha dimostrato nei tanti anni in cui è stato al potere. La sua prima elezione alla Camera risale al 1972, quando il presidente era Nixon. Parliamo di 52 anni fa. Come dire: siamo davanti a un grande navigatore della politica, forse anche logorato da tanti anni vissuti al vertice».

Regole precise

Ma se davvero Biden lasciasse, chi potrebbe subentrargli se non la vice Kamala Harris, l’unica peraltro legittimata a utilizzare le centinaia di milioni di dollari sin qui raccolti per la campagna elettorale?

«Secondo le regole, anche se non è stata nominata ufficialmente - dice Fiorentino - la sola persona che può ereditare, diciamo così, i fondi stanziati per la corsa alla Casa Bianca è Kamala Harris nella sua veste di vicepresidente in carica. Altri candidati dovrebbero peraltro anche legittimare politicamente la loro candidatura, un percorso non facile se non addirittura insidioso». Il nome della Harris, secondo lo storico romano, potrebbe cambiare le sorti della campagna. «D’improvviso, Trump si troverebbe di fronte una donna di 20 anni più giovane, brillante, con una forte identità multietnica e multiculturale. Una candidata che il Partito democratico potrebbe sfruttare benissimo per recuperare il voto delle minoranze in questo momento tiepide con Biden, penso ai musulmani e ad alcuni gruppi di afroamericani».

Paradossalmente, se le cose rimanessero così come sono, con Biden in corsa, i Repubblicani potrebbero sperare in una vittoria più di quanto non sarebbe lecito attendersi se l’avversario di Trump fosse un altro. Ma su questo, Daniele Fiorentino è cauto. «In linea di massima, la sensazione in questo momento, soprattutto in seguito al primo dibattito TV di qualche giorno fa, è che il favorito stia diventando Trump. Tuttavia, non possiamo dimenticare che l’ex presidente è una persona condannata all’unanimità da una giuria popolare e pure sotto inchiesta per altri reati gravi. Soprattutto, Trump solleva molti dubbi anche in una parte dell’elettorato conservatore moderato in quanto è riuscito a mettere in crisi un sistema istituzionale consolidato che soltanto un’altra volta, nella storia, aveva conosciuto una frattura così profonda: nel 1861, con la guerra civile». Il 18 settembre prossimo, un altro Tribunale potrebbe pronunciare una sentenza di colpevolezza contro Donald Trump. Ma in una società radicalizzata e profondamente divisa, ciò potrebbe addirittura produrre una spinta ulteriore al contrasto politico e culturale.

«Quello che negli Stati Uniti è sempre stato una forza, ovvero il riconoscimento degli interessi e dei diritti degli Stati e dei singoli all’interno della Federazione, oggi è venuto a mancare - dice Fiorentino - Per questo facevo il parallelo con la guerra civile. La radicalizzazione politica è figlia di una radicalizzazione sociale, cioè di una di una sempre maggiore distanza tra le due società americane: quella urbana e quella rurale. Il 6 gennaio 2021, a Capitol Hill, abbiamo visto da vicino purtroppo fino a che punto lo scontro possa arrivare».

Di certo, conclude Daniele Fiorentino, «tutto questo ha a che fare con una classe dirigente che fatica a eclissarsi e con l’incapacità delle nuove generazioni politiche di dare risposte alle grandi esigenze di un Paese in continua trasformazione». 

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