La grande paura dei cristiani di Siria nel Paese in mano ai jihadisti
Wasim Salman, sacerdote incardinato nella diocesi di Palestrina e preside del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica di Roma (PISAI), è nato a Damasco 48 anni fa. Nell’ottobre del 2023, invitato dalla Facoltà di Teologia, aveva tenuto a Lugano una conferenza su «Politica e religione tra Islam e democrazia» parlando proprio del caso siriano, argomento cui ha dedicato l’ultimo suo libro pubblicato dall’editore parigino L’Harmattan (Le califat et la laïcité. Perspectives syriennes).
«La situazione in Siria, in questo momento, è relativamente tranquilla - dice Salman al Corriere del Ticino - ma il Paese soffre, da anni, un’eccessiva povertà. Vivere senza il sostegno dell’Occidente o senza le rimesse dei milioni di profughi fuggiti durante la guerra civile è praticamente impossibile».
La caduta di Bashar al-Assad era attesa ma non in modo così rapido. Tutto è precipitato, racconta Salman, dopo la «distruzione delle basi iraniane e delle infrastrutture di Hezbollah da parte di Israele. Questo ha certamente aperto le strade ai jihadisti per arrivare fino a Damasco praticamente senza combattere. L’esercito siriano è stremato dalla guerra, non ci sono più reclute giovani disposte a difendere il regime». La vera «sorpresa, per tutti noi, è stata la caduta di Damasco: si pensava che al-Assad avrebbe almeno tentato un accordo con i jihadisti per rimanere in carica, cedendo magari una parte del territorio. Ma non lo ha fatto, non ha voluto la divisione della Siria, anche per proteggere la sua comunità, per evitare cioè vendette e il massacro degli alawiti».
Al momento, sottolinea Salman, «il rapporto dei ribelli con la popolazione è sereno. Ho sentito amici e anche alcuni sacerdoti di Aleppo i quali mi hanno riferito che non ci sono state violenze né azioni di propaganda islamica. Anche le istituzioni sono state mantenute». Nessuno, però, è in grado di dire che cosa succederà dopo la presa del potere di Abū Muhammad al-Jolani e l’insediamento del nuovo governo. Le minoranze siriane, prime tra loro quella cristiana, guardano con inevitabile ansia al futuro.
«I cristiani, in Siria, hanno un peso molto limitato e molto inferiore a quello del passato, sono meno del 5% della popolazione totale, una debole minoranza - dice Salman - Nessuno sa adesso che cosa accadrà nel dopo Assad. Certo è che la scelta del nuovo primo ministro, Muhammad al-Bashir, un uomo che si è formato studiando la Sharia, non sembra essere la più appropriata. Per governare servono altre competenze, altre capacità. Non nego, quindi, che c’è una certa paura del futuro. In generale, per la Siria la transizione sarà davvero pacifica se i jihadisti cederanno il comando a chi sarà eletto democraticamente dal popolo. Non si dovrà ripetere a Damasco quanto già accaduto in Libia o in Iraq, Paesi che - dopo aver cacciato i rispettivi tiranni - non sono riusciti a venir fuori dalla spirale della violenza».
L’analisi del preside del PISAI è semplice, lineare: «Siamo felici che la Siria sia riuscita a liberarsi da un regime incapace, dispotico, privo ormai di legittimità internazionale. Ma dobbiamo capire se ci sia qualcuno in grado di portare il Paese nella giusta direzione. Il fatto che i jihadisti si siano impadroniti del potere non è rassicurante. Non so fino a che punto questi uomini saranno in grado, o vorranno dialogare con le altre componenti della popolazione per arrivare a una Siria democratica. Non è semplice diventare democratico quando non lo sei mai stato».
Il paradosso
Con una battuta efficace, al limite del paradosso, Salman fa capire la gravità della situazione. «La prima cosa necessaria - dice - è non farci rimpiangere Assad e una dittatura che ha dato un po’ d’ordine al Paese negli ultimi anni, nonostante la tragica povertà e la brutale violazione dei diritti umani. Non farci arrivare, insomma, dove sono giunti molti libici o iracheni che si dolgono di non essere più governati da Saddam Hussein o da Mu’ammar Gheddafi». Dietro l’angolo c’è il modello afghano, che i jihadisti, «ormai ben addestrati, sanno come applicare. Verso l’esterno, non agiscono contro gli interessi internazionali. All’interno, invece, fanno ciò che vogliono. E magari impongono la legge islamica. Se l’Occidente lascerà che a decidere siano soltanto gli uomini di al-Jolani, finirà che alla Siria sarà applicato il modello politico dei talebani».
La pressione dall’esterno, l’azione dei Paesi occidentali, sarà determinante, insiste Salman. «Innanzitutto, bisognerà fare pressione affinché la transizione politica sfoci in elezioni democratiche. Non importa se sarà eletto un presidente musulmano, questo non è un problema in sé. È ovvio che una maggioranza islamica possa voler scegliere un musulmano. Il punto vero è quanto il futuro presidente sarà in grado di garantire l’unità del Paese e il rispetto di tutte le culture presenti oggi in Siria». La parola chiave, secondo Wasim Salman, è una sola: laicità. «Un governo che non rispetti la laicità dello Stato, non può essere veramente democratico. Gli esempi non mancano. In Egitto, Mohamed Morsi, dopo la rivoluzione e la caduta di Hosni Mubarak, non fu in grado di garantire l’unità nazionale e i diritti a tutte le minoranze, aprendo la strada al ritorno dei militari. Nel mondo arabo c’è un Islam più spirituale, capace di separare le cose correttamente e di essere inclusivo, di rispettare le altre culture. La questione è se in Siria sia possibile riprodurre questo modello. È un grande punto interrogativo. Personalmente, sono molto scettico. L’Islam siriano si è trasformato con la guerra, si è radicalizzato. Ci sono nel Paese molti gruppi jihadisti e la dottrina fondamentalista si è diffusa, fino a imporsi adesso in città come Homs o Idlib».
La Siria avrà un futuro, conclude Wasim Salman, se saprà forgiare una propria identità laica, slegata dalle appartenenze religiose. Se saprà, cioè, costruire una «identità siriana che accomuni tutti: musulmani, drusi, alawiti, curdi, cristiani. Per molti anni abbiamo perso il senso della patria. Eravamo al servizio di un regime, di una persona; eravamo immersi in qualche modo nel culto del presidente. Adesso, è finalmente arrivato il momento di rimodellare un’identità nazionale grazie alla quale tutti i cittadini si sentano tali, con identici diritti e identici doveri. Un processo per completare il quale serve tempo, ma che va iniziato in quanto assolutamente necessario».