La guerra dei dazi tra USA e Cina: e l'Europa da che parte sta?

Lo scontro tra Stati Uniti e Cina da geopolitico sta diventando una vera e propria «guerra commerciale». Lo dimostrano i forti aumenti dei dazi su una serie di prodotti cinesi annunciati lo scorso 14 maggio dal presidente USA Joe Biden. Il provvedimento, in vigore dal prossimo 1. agosto, avrà un impatto su beni importati del valore complessivo di circa 18 miliardi di dollari. Tra questi, i semiconduttori, i prodotti medicali, l’acciaio e l’alluminio, le celle solari e perfino le gru per il trasbordo dei container nei porti. E, soprattutto, le auto elettriche cinesi sulle quali il dazio all’importazione verrà addirittura quadruplicato, dall’attuale 25% al 100%.
Quindi, dal 1. agosto prossimo, ovvero quando l’ordine esecutivo di Biden entrerà in vigore, acquistare un’auto elettrica cinese negli USA costerà praticamente il doppio. Ma basterà per contenere la paventata «invasione» dei veicoli Made in China e, in senso più ampio, per proteggere le aziende statunitensi che operano nei settori definiti «sensibili»?

Il sospetto, infatti, è che l’erigersi di queste (costose) barriere tariffarie abbia una valenza più (geo)politica che economica. «Parlerei piuttosto di un’azione di politica interna», suggerisce Matteo Villa, ricercatore senior presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) a Milano. «Biden deve segnalare ai sindacati che in qualche modo proteggerà i lavoratori americani. Non dimentichiamo che siamo nell’anno elettorale», aggiunge Villa. In effetti, la nota diffusa dalla Casa Bianca è intitolata President Biden Takes Action to Protect American Workers and Businesses from China’s Unfair Trade Practices – l’obiettivo di Biden di proteggere i lavoratori e le aziende, ovvero i suoi potenziali elettori, è evidente.
Il rischio di un «effetto boomerang» è però palese perché, presto o tardi, i maggiori dazi porteranno a un aumento generale dei prezzi su molti prodotti, o per via appunto del costo aggiuntivo del dazio o per i maggiori costi di produzione di simili prodotti negli USA rispetto alla Cina. «Sì, l’aumento dei prezzi ci sarà e potrebbe arrivare in tempi rapidi, ma la politica USA guarda alle elezioni di novembre, il cui esito è “più importante” di una probabile nuova fiammata inflazionistica», osserva l’esperto dell’ISPI. «Biden - spiega - sta facendo sostanzialmente il contrario di quanto solitamente si fa secondo i principi del libero mercato. Sta creando un beneficio “localizzato” (per esempio ai produttori di auto a Detroit) per un costo “diffuso” (a tutta la popolazione) – che, tra l’altro, farà salire l'inflazione. In altre parole, vuole tutelare alcuni gruppi di interesse pur recando un danno alla collettività. I prezzi al consumo saliranno, quindi – magari non subito, ma saliranno».
Auto elettriche e «dumping»
I dazi sui veicoli cinesi importati in Europa e negli Stati Uniti sono «una grande trappola per i Paesi che intraprendono questa strada» e non permetteranno alle case automobilistiche occidentali di evitare la ristrutturazione per affrontare la sfida dei produttori cinesi a basso costo. Lo ha affermato negli scorsi giorni Carlos Tavares, CEO di Stellantis, il quarto costruttore di auto al mondo che controlla la produzione di Fiat, Citroën, Peugeot e Opel in Europa e di Chrysler, Jeep e Dodge negli USA.
È caldo il tema del «dumping» - come viene spesso definito - delle auto elettriche cinesi nel Vecchio Continente. Anzi, caldissimo: il 5 giugno prossimo la Commissione europea presenterà una prima decisione sulle potenziali tariffe sulle importazioni cinesi di veicoli elettrici.
I 27 Paesi dell’Unione seguiranno gli USA oppure adotteranno una strategia diversa? «Se i due giganti (USA e Cina) si fanno la guerra, la spinta (dell’’UE) a seguire è fortissima», sostiene Matteo Villa. «In questo momento - prosegue - l’Europa pare essere pronta a invocare la via della sicurezza economica per mascherare gli interessi di parte, come d’altronde stanno facendo gli USA. Ma se gli Stati Uniti applicano questi dazi e quindi (ri)distorcono ulteriormente il commercio globale e “dirottano” le auto cinesi in Europa, a quel punto diventa un po’ più complicato capire se per l’Europa sia veramente una questione di convenienza oppure no».
L’industria automobilistica europea ha alzato l’allarme e la classe politica è costretta a rispondere, «quindi l’incentivo a seguire la via tracciata dagli USA di Biden (ma anche di Trump) diventa ancora più forte», afferma il nostro interlocutore. «E questo è un rischio - continua - perché l’Europa in questa situazione di tensione dovrebbe invece porsi come fine il preservare quell’“ideale” di libero mercato e semmai tranquillizzare i consumatori dicendo che al momento da questa “guerra” l’Europa ci può guadagnare. Se l’UE vuole la transizione energetica, perché non comprare un’auto elettrica che costa 13 mila euro anziché 30 mila? Se c’è lo “sconto”, usiamolo», afferma l’esperto.
Puntare sul valore aggiunto
L’UE ha «urgenza» per la transizione energetica e visto che - come molti osservatori ormai sostengono - l’Europa avrebbe già «perso» la competizione con la Cina sulle auto elettriche, ha ancora senso investire in questo settore? Giriamo quest’ultima domanda al ricercatore dell’ISPI.
«In generale, produrre autoveicoli, tranne alcune componenti, non crea più molto valore aggiunto», afferma Matteo Villa. «Ma l’Europa ha ancora una parte significativa della componentistica - aggiunge - che resta di valore aggiunto medio. Si pensi all’Italia con, per esempio, i freni Brembo o le gomme Pirelli. Ma nel grande schema delle cose, sarebbe anche normale che certe linee di produzione di auto chiudessero – ma questo in un mondo in cui parliamo di vantaggi comparati e non per forza di sicurezza economica. Se invece vogliamo una situazione in cui conta la sicurezza economica, allora forse alcune attività vanno protette. E l’UE e gli USA stanno infatti iniziando a tutelarsi».
«Gli USA sono un 'driver' fondamentale dell’economia svizzera»
Salvo gli addetti ai lavori, forse non tutti sanno che circa un quarto dell’export svizzero è destinato agli Stati Uniti, Paese che dal 2021 è diventato il più importante partner commerciale della Svizzera – secondo solo all’Unione europea nel suo insieme che, assieme al Regno Unito, rappresenta poco più della metà di tutto il nostro commercio estero.
In cifre, l’anno scorso l’export svizzero verso gli USA ha raggiunto quota 17,8%, contro il 15,6% in Germania e il 5,6% in Cina. «La crescita del commercio estero con gli USA rispetto ad altri Paesi è stata continua e più alta anche come volumi: nell’ultimo decennio verso gli USA la crescita è stata di 25,5 miliardi di dollari, verso la Cina 7 miliardi e verso la Germania 4 miliardi», spiega al CdT Martin Naville, presidente uscente della Swiss-American Chamber of Commerce, che indica inoltre come la Svizzera acquisti «undici volte più beni statunitensi pro capite di quanti gli Stati Uniti ne acquistino dalla Svizzera».
Negli ultimi 20 anni gli investimenti diretti svizzeri negli Stati Uniti hanno registrato un tasso di crescita annuale composto di circa il 18,5%. Oggi il nostro Paese è il sesto più importante per investimenti diretti negli USA. Non è male per la 20.esima economia del globo (per PIL, secondo il FMI) e la 100.esima per popolazione (fonte ONU). Al contrario, gli USA sono il primo Paese per investimenti diretti in Svizzera». Ma non si tratta di investimenti qualsiasi, precisa Naville: «Gli statunitensi non vengono in Svizzera in cerca di manodopera a buon mercato, bensì quella ad alto valore aggiunto. Portano inoltre talenti e innovazione e internazionalizzazione. Rispetto ad altri Paesi dell’Osce, la Svizzera risulta quattro volte più “globale” e questo è importante per la nostra prosperità».
Ma quali sono i motivi di questo successo, in considerazione anche del fatto che a oggi non vi è un accordo di libero scambio con gli USA? «Gli Stati Uniti sono la prima economia del mondo con il più grande mercato “aperto” e, soprattutto, accessibile», afferma Martin Naville. «La Cina, nonostante tutto, non è così accessibile come sembra». Il mercato USA è inoltre quello con maggiore potenziale di crescita, ma è anche molto competitivo, precisa Naville: «Le aziende svizzere sono però presenti negli USA da moltissimo tempo, alcune anche da oltre un secolo. Perciò, gli svizzeri hanno avuto il vantaggio di aver potuto capire prima come funziona il mercato USA».
A questo proposito, stando a uno studio di Accenture condotto in collaborazione con la Camera di commercio Svizzera-USA, le imprese svizzere attive sul mercato statunitense hanno un vantaggio decisivo rispetto alle loro controparti nazionali e nel complesso ottengono risultati migliori in termini di solidità finanziaria, gestione dei talenti, tecnologia e sostenibilità. Sono inoltre più agili e resilienti di fronte alle crisi.
Riguardo alla recente decisione dell’amministrazione Biden di inasprire i dazi doganali su una serie di prodotti cinesi, viene da chiedersi quale potrebbe essere l’impatto sul commercio estero svizzero nel Paese nordamericano. «Le aziende svizzere che producono negli USA raramente esportano direttamente in Cina, specie prodotti a “duplice uso” (software e tecnologie che possono essere utilizzati sia per applicazioni civili che militari, ndr), ritengo quindi che la Svizzera resterà “sotto il radar”», afferma Naville.
Dal canto suo, Rahul Sahgal, che dal 1. agosto prossimo assumerà la presidenza della Camera di commercio svizzero-americana, osserva che «c’è stata qualche difficoltà per le aziende svizzere che vogliono acquisire entità USA nei segmenti ritenuti “sensibili” (high-tech, big data, pharma ecc.) per via anche del Comitato sugli investimenti esteri negli Stati Uniti (CFIUS) che impone dei processi di “whitelisting” piuttosto complessi e che le pone in una situazione di svantaggio competitivo per via delle lungaggini rispetto ad aziende americane».
Giunto a fine mandato, il 65.enne zurighese Martin Naville ci indica il più importante successo ottenuto nei suoi vent’anni di presidenza, ovvero «il riconoscimento negli ambienti economici svizzeri dell’importanza dell’internazionalizzazione dell’economia. Il 4% delle aziende in Svizzera è attiva a livello internazionale. Queste aziende offrono 25% dei posti di lavoro, contribuiscono al 36% del PIL e pagano il 48% delle imposte sulle società – questo rende la Svizzera prospera e gli USA sono un fondamentale driver per la creazione di questa ricchezza».