Tresa

La guerra nei ricordi di Iris, fra emozioni e miseria

La donna, 103 anni, è stata samaritana durante il secondo conflitto mondiale: ci ha raccontato cosa ha visto
©Chiara Zocchetti
Sveva Poggi
02.08.2023 06:00

«Sono nata a Bellinzona il 27 aprile del 1920» esordisce Iris Manfrini, centotre anni e una memoria impeccabile. L’abbiamo incontrata alla casa anziani di Castelrotto, dove è ospite da qualche anno, per farci raccontare la sua incredibile vita. È stata samaritana nell’esercito svizzero e crocerossina nei campi dei rifugiati elvetici e in Polonia dopo la Seconda guerra mondiale.

Avevano molta fame

Ad accoglierci a Castelrotto c’è una stanza con fotografie di famiglia e dell’adorata Leventina, un peluche di nome Ritom, parole crociate e diversi libri: due grandi passioni di Iris. E proprio dal suo amore per la Leventina iniziamo la nostra chiacchierata: «Sono patrizia di Monteggio, ma sono cresciuta a Piotta, par mì la Leventina l’è tütt» racconta sorridendo. «Ho avuto un’infanzia bellissima. Vivevo in valle con mia sorella, a cui volevo molto bene, la mia mamma e mio papà». Una famiglia a cui il termine disciplina non era sconosciuto: «Mio nonno paterno era capoposto delle guardie a Ponte Tresa. Aveva due figli maschi: uno era istruttore militare e l’altro lavorava in dogana. Le figlie sparavano come uomini. Anche mia mamma nel comodino aveva il revolver. All’inizio della guerra abitavamo ancora in Alta Leventina, dove c’erano tutti i soldati». E se madre e zia avevano una certa dimestichezza con l’uso delle armi, lo stesso non si poteva dire di Iris e di sua sorella: «Non sapevamo sparare, però io ho fatto la scuola reclute a Basilea e ho proseguito con il servizio militare».

Un rigore ferreo ha accompagnato la protagonista della nostra storia nel suo percorso di crescita; cosa che, a suo dire, le ha reso più facile adattarsi all’ambiente dell’esercito, che non le dispiaceva affatto: «Nel sanitario si stava bene, eravamo tutte donne e molto disciplinate. A me questo non è mai pesato, sono cresciuta in una famiglia che prestava molta attenzione a queste cose. Infatti, quando in Svizzera c’è stata la mobilitazione nazionale, mi sono adeguata velocemente. E poi lo si faceva con amore, per la Svizzera».

Così Iris ha cominciato a lavorare per la Croce Rossa nella Svizzera tedesca e nei campi dei rifugiati in Ticino e a Sankt Margrethen. Là ha incontrato persone provenienti da diverse realtà, ma accomunate dalla necessità di fuggire dalle atrocità della guerra: «Noi samaritane avevamo il compito di prenderci cura dei rifugiati: cucinavamo per loro, disinfettavamo i loro indumenti e ci assicuravamo che stessero bene. Loro avevano molta fame, era molto importante che mangiassero. Alcuni avevano patito così tanto... Appena ti vedevano muovere la bocca pensavano avessi del cibo e accorrevano per chiedertene un po’».

Un momento indimenticabile

Quel lavoro ha toccato profondamente Iris, che non sembra aver scordato nulla e nessuno. Fra i tanti, c’è un’episodio che le è rimasto particolarmente impresso: «Nel campo di Sankt Margrethen c’erano due bambini senza genitori. Il loro nonno veniva a trovarli ogni quindici giorni da Basilea: li aspettava sempre appoggiato al suo bastone davanti allo steccato. Un giorno al campo si è presentata una donna cadaverica, faceva davvero pena, e ci ha detto che aveva perso in un bombardamento a Vienna i figli e il marito. Parlando un po’ con lei ci siamo resi conto che i bambini a cui si riferiva erano proprio i due ospiti del campo. Quando abbiamo ritenuto fosse pronta, abbiamo riunito la famiglia. Lei è svenuta dall’emozione».

Impossibile prepararsi

La signora Iris non aveva lavorato solo in Svizzera. Appena finita la guerra, le samaritane dell’esercito avevano accompagnato un treno sanitario sino a Varsavia, in Polonia, per prestare soccorso e ricondurre in patria alcuni rifugiati polacchi e in Svizzera alcuni confederati. Nessuna formazione o educazione ha potuto prepararla a ciò a cui ha assistito in Polonia: «Lì ho visto la miseria più nera, non ero preparata. A Varsavia non c’era più nulla. Era stata rasa al suolo dalla guerra. C’era solo una pianura immensa che proseguiva fino alla Russia. Noi quando eravamo là non potevamo parlare tedesco, ma solo francese, perché la gente aveva paura». Paura, miseria e distruzione sono state solo alcune delle conseguenze devastanti del secondo conflitto mondiale: «È stato terribile. Una volta arrivata a Varsavia non sono riuscita a trattenere le lacrime e ho pianto per ore. Ricordo che avevamo una scorta di pagnotte che abbiamo dato a chi ne aveva bisogno. E correvano a prenderle, avevano così fame...».

Il diario in fiamme

Sulla permanenza nell’esercito e sulla settimana trascorsa in Polonia, Iris Manfrini ha scritto un diario: un po’ una testimonianza delle sue esperienze, un po’ una valvola di sfogo. Diario che tuttavia non esiste più: Iris lo ha distrutto pochi anni dopo, dandolo in pasto alle fiamme: «Scrivevo quello che vedevo e facevo. Forse è peccato averlo bruciato, in fondo era bello. Ma mì brüsi tütt. Non volevo lasciare indietro nulla di me, mi spaventava, avevo tante cose intime nel diario. Mi sono detta che non era interessante, così l’ho distrutto». Dopo la fine del conflitto e il conseguente licenziamento dall’esercito, Iris è tornata a Monteggio, lavorando fra l’altro nell’amministrazione comunale. Da qualche anno è ospite della casa anziani di Castelrotto, ma sente ancora il desiderio di vedere il mondo: «Vorrei fare un ultimo viaggio in treno: ne sarei così felice...».