L'intervista

«La mia prima volta in tv? Fu proprio in Ticino»

Cochi Ponzoni ritorna sul luogo del delitto, per il festival «Tutti i colori del giallo» – E racconta la sua vita all'insegna della risata
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
27.04.2025 17:00

Si considera l’ultimo sopravvissuto di un periodo che ha fatto la storia del cabaret milanese e per questo, ora che ha raggiunto gli 84 anni, Cochi Ponzoni ha appena scritto un libro La versione di Cochi (Baldini+Castoldi) «per lasciare un ricordo di ciò che ho vissuto sulla mia pelle», precisa a La Domenica, prima di salire sul palco a Tutti i colori del giallo, il prossimo 15 maggio a Massagno, «dove prenderò le mosse dal libro per raccontare la Milano della mia infanzia e di tutti gli incontri che ho avuto che hanno influenzato la mia carriera».

Il primo di questi incontri è stato proprio con Renato Pozzetto con cui ha debuttato al Cab 64, uno dei primi locali di cabaret a Milano, nel 1964.
«I nostri genitori erano amici prima ancora che nascessimo. Quando durante la Seconda guerra mondiale Milano cominciò a essere bombardata ci trasferimmo a Gemonio, piccolo paese a 15 chilometri da Varese, per evitare le bombe. Lì, c’era Renato con la sua famiglia. Si può dire che siamo cresciuti insieme in quell’isola felice».

Com’è oggi il rapporto con Pozzetto?
«Continua a essere armonioso anche se non lavoriamo più insieme».

Magari un giorno tornerete a lavorare insieme?
«Lo spero caldamente, intanto io continuo a fare le cose che mi divertono, come successo mercoledì scorso al Blue Note di Milano, dove in uno spettacolo ho raccontato la vita di Charlie Parker con un gruppo di jazzisti favolosi».

Cabaret ma anche musica, quindi, nella vita di Cochi?
«La musica è sempre stata la base della mia vita fin da ragazzino. Quando avevo 15 anni Milano era la patria del jazz internazionale. Dall’America sono venuti a suonare personaggi importantissimi come Louis Armstrong, Ella Fitzgerald, Gerry Mulligan e Chet Baker. Li ho visti tutti . Non me ne sono perso uno di quei concerti».

Del resto sono stati proprio la musica e il canto a farvi apprezzare e scoprire da Enzo Jannacci.
«Noi eravamo suoi ammiratori ancora prima di conoscerlo perché la sua canzone El portava i scarp del tennis era già diventata un successo nazionale. Un giorno è venuto a vederci al Cab 64 e si è innamorato di noi. Noi eravamo già innamorati di lui e quindi è stato veramente un incontro magico».

Prima del Cab 64 lei e Pozzetto vi eravate già esibiti davanti a un pubblico?
«Abbiamo cominciato già da studenti a cantare nelle osterie di Milano, che erano frequentate da grandi pittori e da grandi intellettuali. Passavamo le serate con Dino Buzzati, Lucio Fontana, Piero Manzoni, Umberto Eco, Dario Fo, tutta gente che frequentava le osterie dopo la guerra. Noi eravamo ragazzini che canticchiavamo, intrattenendo questo pubblico senza nessuna mira professionale. Era solo divertimento».

È vero che rifiutò una tela di Lucio Fontana?
«Sì, andò così. Io avevo vent’anni, lui già più di 60. Dopo l’osteria lo accompagnavo spesso a casa in auto e un giorno volle ringraziarmi dandomi un suo quadro. Rifiutai perché mi sembrava mio nonno e quindi mi sembrava di approfittarne. La stessa cosa successe anche con Piero Manzoni e la sua Merda d’artista».

Cioè?
«Una sera a tavola tirò fuori questa scatoletta. «Sai cos’è questa? - mi chiese -. È merda d’artista». Io lo guardai stralunato. Voleva darmela, rifiutai. Ho sempre seguito l’istinto. Soprattutto da ragazzino. Sono sempre stato abbastanza ingenuo».

Ciò non le ha comunque impedito di fare una carriera importante, esordendo anche in tv nel 1968.
«In realtà il mio esordio in tv con Renato è avvenuto quattro anni prima, nel 1964 e sulla vostra televisione».

Davvero? Come andò?
«Andò che il regista e il produttore Grytzko Mascioni era un assiduo frequentatore del Cab 64. Ci ha visti e ci ha portato sulla vostra televisione. È stato il nostro primo talent scout, diciamo».

Quella non fu l’unica apparizione sulla tv svizzera, giusto?
«Nel 1993 abbiamo fatto anche una trasmissione a quiz in cui c’erano anche Aldo, Giovanni Giacomo e Antonio Cornacchione. Era una specie di quiz poliziesco. Aldo, Giovanni e Giacomo facevano già la parodia dei poliziotti svizzeri. È stato divertente».

A proposito di comici, come vede la scena attuale? C’è qualche collega che le piace?
«Ci sono diversi giovani che hanno capacità e talento. Valerio Lundini è uno di questi. Poi ci sono i miei amici che stanno portando avanti una comicità diversa dalla mia, ma sempre milanese, come Antonio Albanese e gli stessi Aldo, Giovanni e Giacomo. L’ironia milanese è molto particolare. Non ha mai sfondi troppo forti, il sottofondo è sempre abbastanza bonario e possiede un modo di affrontare la comicità e la satira umanamente accettabile».

Anche Milano è rimasta sempre la stessa?
«No, da Milano sono ad esempio dovuto scappare negli anni ‘80. Era una città, quella della Milano da bere, dei soldi e degli yuppies, che non tolleravo più. Così di buon grado sono andato a vivere a Roma Negli anni 2000 ci sono tornato e ho riscoperto una città che secondo me è rinata».

In questo articolo: