Società

La montagna che evolve, nonostante tutto

Mobilità sempre più veloce, fuga dai cambiamenti climatici e possibilità di telelavoro: iniziano ad aumentare i fattori che potrebbero portare a un ripopolamento delle località alpine – Luigi Lorenzetti (USI): «Va ricreata una rete di servizi in prossimità che rianimi il tessuto sociale»
Paolo Galli
Alan Del Don
19.08.2022 06:00

Con la questione del lupo, ci siamo ricordati della contrapposizione tra le nostre città e le nostre montagne, tra la cosiddetta gente di città e la gente di montagna. Una contrapposizione, fatta anche di stereotipi, riemersa dal profondo della nostra storia comune. La storia del nostro territorio. Ora andiamo oltre, chiedendoci chi sia la gente di montagna. Chi, oggi, decide di restare e soprattutto di spostarsi in montagna? Si iniziano infatti a leggere racconti (e studi) di scelte opposte rispetto alle tendenze demografiche che davamo ormai per scontate. C’è infatti chi, a causa del cambiamento climatico o grazie alle nuove opportunità legate al lavoro da remoto, decide di salire di quota. Ne abbiamo parlato con Luigi Lorenzetti, del Laboratorio di Storia delle Alpi dell’Accademia di architettura di Mendrisio.

E quindi, chi popola oggi le nostre montagne? La risposta varia a seconda della montagna a cui ci si riferisce. «In linea generale i villaggi delle valli più discoste accusano un invecchiamento demografico assai pronunciato e saldi migratori cronicamente deficitari - spiega il professore dell’USI -. Nei villaggi turistici o di mezza montagna la dinamica demografica risulta più vivace. In alcuni casi si registrano addirittura movimenti di ripopolamento, alimentati dal desiderio di riavvicinamento alla natura e dalla ricerca di una qualità di vita alternativa a quella dei centri urbani. Queste motivazioni sono all’origine dello sviluppo di correnti di “nuovi montanari”. Tra di loro vi sono giovani famiglie che vogliono sviluppare progetti imprenditoriali legati alla vita rurale, individui e famiglie che scelgono la montagna per le sue qualità ambientali e per i vantaggi economici, i cosiddetti amenity migrants - in origine proprietari di seconde case che decidono di stabilirvisi in modo permanente, stagionale o intermittente - e, infine, pensionati che scelgono di trascorrere la terza età in un contesto che offre una migliore qualità di vita».

Lo sviluppo

Per molti secoli, abitare in montagna non ha significato vivere in contesti marginali. Lorenzetti spiega: «Le comunità montane hanno sempre vissuto in stretto contatto e in una relazione di complementarità con le pianure e con i centri urbani». La modernità industriale e lo sviluppo dei grandi assi viari transalpini hanno però «trasformato molte aree alpine in spazi di marginalità, esposti al franamento demografico verso i centri urbani di fondovalle». Paradossalmente, però, «nel prossimo futuro la velocizzazione della mobilità potrebbe fungere da volano per i processi di ripopolamento della montagna. Se ne hanno dei segnali nello sviluppo di alcune località di fondovalle come Visp e Altdorf». Un ripopolamento favorito insomma dai rapidi collegamenti assicurati dalla ferrovia con i centri metropolitani. «E non possiamo escludere che questa crescita si espanda, nei prossimi anni, anche verso le località di valle più prossime».

Le novità

Si diceva dei cambiamenti climatici come possibile motore in questo senso. «È lo scenario che delinea Luca Mercalli in un suo recente saggio. Al momento, tuttavia, mancano analisi che prendono in considerazione la relazione tra i cambiamenti climatici - in particolare il prolungamento dei periodi canicolari in estate nelle aree di bassa quota - e la scelta di andare a vivere in montagna. Alcuni indizi sembrano tuttavia andare in questa direzione, come ad esempio il costante rialzo dei prezzi del mercato fondiario e immobiliare in numerose aree alpine. In Vallemaggia, ad esempio, il numero di transazioni immobiliari tra il 2010-13 e il 2018-21 è cresciuto del 16,6%, mentre nei comuni della bassa Vallemaggia la variazione è stata solo del 5,2%. Nello stesso periodo, il valore di queste transazioni è cresciuto del 25,2% nell’alta valle mentre nella bassa valle la variazione si è fermata al 13,7%». È naturalmente difficile correlare queste tendenze con eventuali progetti di cambiamento residenziale, spiega ancora Lorenzetti, «ma non si può escludere che il riscaldamento climatico porti a rivedere l’attuale politica delle residenze secondarie; non senza sollevare problemi aggiuntivi come quelli riguardanti l’approvvigionamento idrico».

Dal cambiamento climatico alle nuove forme di lavoro, che «rappresentano opportunità per ripensare il rapporto tra centro e periferia». Tuttavia, «l’infrastrutturazione digitale non basterà, da sola, a consolidare la tendenza al telelavoro emersa con la pandemia. Occorre ripensare l’intera organizzazione territoriale, ricreando nelle aree periferiche una rete di servizi di prossimità in grado di rianimare il tessuto sociale delle zone di montagna».

Il rapporto con l’economia

Effettivamente, l’abitare in montagna dipende in gran parte ancora dall’economia delle montagne. Un’economia che cambia, magari meno velocemente rispetto a quella di città. «Nel corso degli ultimi due secoli, molte zone di montagna hanno costruito la loro prosperità su una struttura economica diversificata e legata alle tradizionali forme di pluriattività. In molte località, la monocultura turistica dovrà essere ripensata non solo attraverso le strategie di destagionalizzazione, ma anche attraverso la sua maggiore integrazione con le diverse filiere dell’economia locale e regionale». Il professor Lorenzetti pensa alle esperienze di “turismo sostenibile” e di “turismo dolce”, le quali «hanno ormai dimostrato di poter generare indotti economici significativi e addirittura superiori a quelli del turismo “tradizionale”».

Il ruolo dell’architettura

L’evoluzione della popolazione in montagna potrebbe influenzare anche l’interpretazione insediativa della montagna, portando a nuove strategie di occupazione e di progettazione. «Vi sono diversi esempi nelle Alpi italiane in cui una progettazione architettonica di qualità si è rivelata funzionale alle iniziative di ripopolamento. In Alto Adige e in alcune vallate piemontesi, ad esempio, diversi progetti di recupero e di rivitalizzazione insediativa sono stati promossi facendo leva su progetti architettonici di qualità».

E l’archetipo dello chalet continua a influenzare fortemente l’architettura residenziale. «Tale archetipo ha le sue origini nell’estetica romantica del primo Ottocento. Oltre a portare alla omogeneizzazione dell’architettura di montagna, esso ha favorito un processo di patrimonializzazione incentrato sulla valorizzazione turistica, che frena però quelle pratiche rigenerative che valorizzano le varie dimensioni della sostenibilità».

Ma, per chiudere, non c’è il rischio di urbanizzare sin troppo le nostre località alpine, snaturandole? Lorenzetti coglie la provocazione. «Difatti, fenomeni di urbanizzazione sono ampiamente presenti nelle Alpi. Basti pensare alle numerose località turistiche sviluppatesi sulla scia del boom edilizio e della speculazione immobiliare del secondo dopoguerra. Nel breve e medio termine non è comunque da prevedere un’ulteriore cementificazione delle montagne. In Svizzera le norme pianificatorie adottate negli ultimi anni contribuiscono a limitare la proliferazione residenziale. Proprio l’emergere di nuovi modelli residenziali plurilocali potrebbe tuttavia riaffermare forme insediative che hanno caratterizzato il territorio di molte aree di montagna del passato».