«La pianificazione territoriale dovrà ritrovare un ruolo rilevante»

Confrontati a questo presente e a un’idea di futuro resa più vaga dai cambiamenti in corso, su tutti quello climatico, ci interroghiamo anche sul modo di definire le nostre case, sull’arte di pensare e costruire il mondo che ci circonda. Abbiamo interpellato quindi Walter Angonese, direttore dell’Accademia di architettura.
Professore, la mia sensazione è che l’architettura sia una delle discipline che, un po’ come le scienze, più guarda al futuro, al costante cambiamento. È davvero così?
«Da sempre l’architettura è in relazione con tre aspetti: il passato, da cui trae le esperienze per realizzare progetti; il presente, che impone di prendere decisioni e fare scelte; il futuro, che porta queste scelte in una dimensione in cui responsabilità e visione si intrecciano e dialogano. Tutti e tre questi aspetti sono necessari perché un progetto architettonico sia serio e responsabile».
In questo senso, riesce sempre ad adattarsi al mondo che le sta attorno? È questo l’obiettivo?
«Deve riuscirci per forza, ma deve farlo in modo critico. Come ho detto, ogni scelta va presa rivolgendo uno sguardo al passato, analizzando il presente e proiettandosi verso il futuro. Non bisogna necessariamente assecondare una richiesta: talvolta la resistenza - come l’ha definita Luigi Snozzi - è la risposta più appropriata, e nella storia del mondo e dell’architettura ci ha salvato da decisioni troppo frettolose e arbitrarie».
Penso, in particolare, al cambiamento climatico. Si parla sempre più di adattamento al riscaldamento globale. Come lo affronta l’architettura, anche tenendo conto dei fenomeni estremi già sotto i nostri occhi?
«Nella sua storia millenaria l’architettura ha sempre avuto modo e necessità di confrontarsi con il clima e il suo cambiamento: molte delle architetture che conosciamo sono nate proprio da questo confronto. Il vero dramma dell’epoca contemporanea è che il cambiamento climatico procede a un passo talmente veloce e preoccupante che mal si accorda con il principio di inerzia a cui il costruire è strettamente legato. Sono anni che gli architetti propongono strategie e modalità di costruzione volte alla sostenibilità. Qui in Accademia, grazie anche al fatto che il nostro corpo docente è internazionale, lavoriamo ogni anno con gli studenti - e futuri architetti - perché si trovino metodi che affrontino con efficacia le sfide climatiche. La pluralità delle risposte possibili, che sono sempre legate al principio di responsabilità che un architetto deve avere, mi fa credere che questa disciplina sappia agire in modo serio, innovativo ma anche in continuità con tutto ciò che di meraviglioso è stato realizzato nel passato».
Di fronte a questi eventi, penso in particolare alle alluvioni che spazzano via intere vie, agli incendi - il dramma di Los Angeles è il più recente -, quali sono i suoi primi pensieri?
«Penso che ci debba essere una pianificazione responsabile. Le nostre conoscenze e le abilità interdisciplinari che sono sempre più richieste a noi architetti generalisti ci permettono di prevedere e includere in una pianificazione urbana e strategica possibili scenari. Purtroppo, la legge del mercato ha spesso compromesso questo nobile processo della pianificazione urbana. Per dirlo in poche parole: noi architetti dobbiamo sapere dove costruiamo, come costruiamo, e perché costruiamo: sono principi che insegniamo anche qui in Accademia. Ed è per questo che l’architetto generalista, che non è esperto di ogni singola disciplina ma che sa far dialogare i diversi saperi, è più che mai necessario, e che la pianificazione territoriale e urbana dovrà di nuovo assumere un ruolo rilevante, ovunque, non solo nelle aree più vulnerabili».
Quanto è presente questa sfida all’Accademia di architettura dell’USI a Mendrisio? E come si inserisce nel piano di studi?
«Stiamo lavorando su questo aspetto già da molto tempo. Il nostro piano di studi è molto ricco in questo senso e offre diverse possibilità per apprendere e mettere in pratica questa capacità di intrecciare dati, esperienze e visione. Non siamo un politecnico come quelli di Zurigo o di Losanna, non abbiamo istituti di fisica, meteorologia, ingegneria: siamo una scuola di taglio più umanistico, che vuole formare architetti con un forte pensiero critico. L’umanesimo è da sempre uno strumento di analisi di fenomeni culturali e naturali e ha la capacità di produrre sintesi e risposte sensate. E se in futuro anche l’intelligenza artificiale darà un impulso alle nostre capacità di analisi e sintesi, allora il nostro contributo per un pensiero critico sarà fondamentale».
In fondo si studia come potrebbe cambiare il mondo fuori. In questo senso quali sono le principali difficoltà come direttore nel dare una visione di un mondo che ancora non c’è?
«È importante dare una visione pluralistica all’insegnamento: non esiste mai una risposta sola o una sola soluzione. Questa grande pluralità distingue da sempre l’Accademia di architettura da molte altre scuole. E lo ripeto: è la storia comparata che ci consente di capire quali sono le costanti nel mondo, quali cambiamenti nel passato prossimo o remoto hanno generato determinate risposte, perché il presente ha queste caratteristiche, e come il futuro possa essere cambiato senza dovere necessariamente rivoluzionare tutto. Sono convinto che dovremmo modificare certe nostre abitudini, ma sono altrettanto convinto che se non riusciamo a creare una solida base di consapevolezza e di responsabilità verso il mondo che abitiamo, mettendoci al riparo dall’individualismo, tutto il lavoro che cerchiamo di fare con i nostri studenti sarà inutile».
E come contribuisce l’intelligenza artificiale in questo senso? Come entra l’intelligenza artificiale nell’architettura?
«L’intelligenza artificiale è uno strumento fondamentale, che ci permetterà di agire in modo più preciso, evitando il più possibile errori, e di fare analisi in tempi brevi, consentendoci di dare risposte anche in casi di emergenza. Per l’architettura comporterà grandi cambiamenti, ma rimarrà comunque solo uno strumento molto efficiente. Se la società non capirà che il pensiero critico, i sentimenti e i fenomeni determinati dal caso fanno parte dell’essere umano e che quindi i prodotti che noi generiamo hanno un’altra complessità rispetto a quella generata da macchine che si basano solo su dati, allora l’umanità – non solo l’architettura – perderà molto della sua essenza».
Sarebbe facile pensare a un’IA anche a misura di architetto, nella ricerca di soluzioni e di alternative. Quali sono i limiti di un simile modo di ragionare?
«In Accademia ci sono persone ben più titolate di me a parlare di intelligenza artificiale. A ogni modo di recente proprio in questa scuola si è svolto un convegno in cui è emersa proprio questa domanda. A quanto dicono gli esperti, se è vero che l’intelligenza artificiale si basa su dati, allora, se alimentata da dati personali, dovrebbe generare risposte personalizzate. Sicuramente diventerà uno strumento che potrà aiutare noi architetti a formulare possibili soluzioni in tempi brevi, ma probabilmente non ci aiuterà a interpretare gli spazi interstiziali che spesso in architettura definiscono un progetto e non sarà in grado di generare una ambivalenza positiva che lascia aperta un’interpretazione. Forse riuscirà a realizzare progetti perfetti, ma è questo quello che vogliamo? Michelangelo era perfetto? Sicuramente lui non aveva di sé questa immagine. Il dubbio in un’opera non è forse ancora una qualità?».
All’Accademia di architettura quanto si parla già di intelligenza artificiale? Che ruolo ha nella filosofia della facoltà e nei corsi?
«Da alcuni anni stiamo dedicando sempre più attenzione a questo aspetto, anche se probabilmente non siamo ancora al livello di altre scuole. I nostri studenti si interessano molto a questo tema e noi cerchiamo di supportarli, pur ricordando loro che per ora l’intelligenza artificiale è solo uno strumento che bisogna usare con consapevolezza e distanza critica. Non sappiamo cosa ci riservi il futuro, certo è che i progressi degli ultimi due anni sono impressionanti. Come ho già detto, vogliamo formare architetti che sappiano usare questi e altri strumenti, ma che siano ancora padroni dei propri pensieri e delle proprie scelte».
Penso a Ettore Sottsass, all’importanza - sottolineata dallo stesso architetto - di costruire una narrazione personale intorno alla progettazione. Ecco, quella dote come si insegna?
«A rischio di annoiare lo ripeto: ci vogliono pensiero critico e pensiero autocritico. Il famoso architetto e teorico Hermann Czech afferma: “Ogni decisione necessita di una riflessione”. Se documentata, si potrebbe parlare di una forma di narrazione e alla narrazione serve creatività, e alla creatività serve curiosità e passione. Tutto qui».