L'intervista

«La raccolta fondi? Una difficile e permanente necessità, sostenibile con la tecnologia»

Henry Peter, direttore del Centro di Filantropia dell'Università di Ginevra, ha recentemente partecipato, a Manno, all'annuale Assemblea generale della Croce Rossa Svizzera – Lo abbiamo intervistato
© Croce Rossa Svizzera Sezione Sottoceneri
Giacomo Butti
05.10.2024 18:00

Che si tratti della costruzione di un pozzo, dell'allestimento di un ospedale da campo o dell'invio di derrate alimentari a una popolazione in guerra, fare del bene comporta sempre dei costi. Va da sé: più è grande il progetto, maggiori sono le spese. Per questa ragione, chi si occupa delle raccolte di beneficenza (il cosiddetto fundraising) vive nel costante bisogno di trovare metodi più efficienti ed efficaci per svolgere il proprio ruolo. Lo sa bene Henry Peter, professore ordinario e direttore del Centro di Filantropia dell'Università di Ginevra: in Ticino per l'annuale Assemblea generale della Croce Rossa Svizzera Sezione del Sottoceneri, ha presentato una serie di progetti che, in futuro, potranno aiutare l'organizzazione nell'obiettivo di solidarietà. Lo abbiamo intervistato.

Realtà virtuale

«Una difficile e permanente necessità». Così, al Centro Diurno Terapeutico di Manno, Peter ha riassunto per noi l'essenza del fundraising. Una pratica dalle mille declinazioni e possibilità: per la conferenza, il direttore del centro filantropico ginevrino ci racconta di aver scelto due progetti in particolare «che possono aiutarci a ottenere risultati migliori nella raccolta fondi. Si tratta di due temi interessanti che possono avere applicazioni concrete anche per la sezione ticinese della Croce Rossa. Da una parte, l'utilizzo della realtà virtuale. Dall'altra, quello dei cosiddetti Humanitarian impact bonds (HIB), obbligazioni a scopo umanitario».Partiamo dalla realtà virtuale. Come può essere utilizzata nella raccolta fondi? «L'idea è stata verificata nell'ambito di esperienze di ricerca effettuate in collaborazione con il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) a Ginevra. I risultati, misurabili, mostrano che il ricorso alla realtà virtuale aumenta in chi vi è sottoposto l'intenzione di donare, così come le effettive donazioni».Grazie all'apposita attrezzatura, chi partecipa all'esperimento si trova catapultato in uno scenario di guerra, vivendo in prima persona i drammatici momenti di un operatore sanitario che cerca di salvare la vita di un bambino nel bel mezzo di un fuoco incrociato. CdT.ch ha ottenuto un filmato che riproduce l'esperienza nel mondo virtuale:  

L'esperienza fa indubbiamente riflettere e, come detto, spinge a una maggiore solidarietà verso il prossimo. «L'impatto della realtà virtuale, secondo quanto misurato, aumenta di almeno il 20% la possibilità di ottenere donazioni da parte di chi ne fa esperienza». Come rendere accessibile al grande pubblico questa esperienza? L'applicazione, ammette Peter, va sicuramente studiata e organizzata. «Ma ora sappiamo che l'impatto della realtà virtuale non è da sottovalutare».

Investimenti caritatevoli

Un'altra idea sviluppata a Ginevra con il CICR riguarda l'attuazione di un progetto di investimento caritatevole, gli Humanitarian impact bonds. «La sensibilità del pubblico, dei giovani in particolare, si è negli anni recenti concentrata maggiormente attorno a investimenti ESG (Environmental, social, and governance, ndr), caratterizzati da obiettivi sostenibili e socialmente responsabili». Da questa osservazione, è nato il concetto di HIB, che punta ad applicare la sostenibilità alle donazioni filantropiche, trasformando i donatori in investitori: «A questi viene proposto l'acquisto di obbligazioni per finanziare progetti umanitari. Dopo un lasso di tempo prestabilito, si misura se gli obiettivi dell'investimento sono stati rispettati». Se la risposta è affermativa, «l'investimento viene rimborsato. Se non è così, invece, è totalmente o parzialmente perso. Siamo a metà tra una donazione filantropica e un investimento nudo e crudo». Il direttore del Centro di Filantropia di Ginevra ci fa un esempio: «Mettiamo che l'obiettivo sia raccogliere 5 milioni di franchi per ampliare un ospedale in un Paese africano, facendo passare il numero massimo di pazienti da 100 a 300 al giorno. Raccolto il denaro dei donatori-investitori, la costruzione viene finanziata. Tre anni dopo, un ente esterno si occupa di valutare se il traguardo sia stato o meno raggiunto».

E qui, se tutto va bene, avviene il rimborso. Ma per mano di chi? «Diversi governi, tra i quali quello svizzero, italiano e inglese hanno stretto un accordo con il quale garantiscono il rimborso di capitale (ed interessi) nel caso in cui l'investimento iniziale abbia sortito gli effetti sperati».Progetti simili si sono dimostrati fruttuosi per tutte le parti interessate. «Un investitore normale non acquisterebbe questi bonds: il contributo filantropico sta nell'assumersi il rischio. Ma poi, chi effettua questo tipo di investimento è invogliato a farne altri, specialmente se c'è un ritorno. Lo Stato, invece, sa di finanziare – o rimborsare – un progetto di successo. È un modo di fare filantropia il cui potenziale non è ancora sfruttato al massimo. Questo meccanismo è stato finora principalmente applicato a grandi progetti internazionali, ma sono convinto che potrebbe funzionare anche a livello locale, in Ticino, magari con il supporto di BancaStato e con incentivi fiscali forniti dal Cantone».   

Tecnologia, tracciabilità, etica

L'accostamento con la realtà virtuale è solo un esempio: così come si evolve il mondo, si evolve la raccolta fondi. Ma collegare quest'ultima alle numerose tecnologie emergenti non è sempre facile. Prendiamo il caso dell'intelligenza artificiale (AI). «Da tempo, al Centro di Ginevra, studiamo i rapporti fra intelligenza artificiale e filantropia. E abbiamo identificato due dinamiche interessanti: l'AI per la filantropia e la filantropia per l'AI». Nella prima correlazione, spiega Peter, «abbiamo notato come l'AI permetta di migliorare l'efficienza di organizzazioni che hanno uno scopo filantropico». Come? «Ad esempio, identificando i donatori potenziali: invece di mandare milioni di brochure a tutti i fuochi, la raccolta e analisi di big data con l'AI permette di preselezionare chi sarà più propenso alla donazione». Il professore ci parla poi della seconda dinamica: la filantropia per l'AI. «L'informazione prodotta dall'analisi di big data può essere manipolata per fini commerciali o politici, diventare un vero e proprio business. Per questo le organizzazioni filantropiche, dalla loro posizione privilegiata di attori indipendenti e disinteressati, possono svolgere un ruolo cruciale nel guidare la rivoluzione dell'AI verso un approccio più etico e inclusivo».L'intelligenza artificiale può poi lavorare esplicitamente contro la filantropia. È proprio grazie all'AI  – ne avevamo parlato qui – che recentemente si sono moltiplicati i siti malevoli, sempre meglio costruiti ed efficaci nell'ingannare gli utenti web, spingendoli a donazioni verso gruppi tutt'altro che filantropici. Oggi, insomma, bisogna fare più attenzione a come si dona? «Direi di sì. La dematerializzazione crea dei rischi che una volta non esistevano». Peter ci fa un esempio. «Pensiamo alle criptovalute: permettono di avere fondi le cui origini e destinazioni non sono più identificabili». Un grosso problema, dato che la tracciabilità, nel mondo della filantropia, è un argomento di primaria importanza: «Il rischio che corriamo sempre è che i fondi in arrivo siano tainted money, denaro sporco. Tutte le organizzazioni filantropiche, le ONG e le università che ricevono fondi filantropici sono molto attente perché sanno che potrebbero incappare in denaro proveniente da attività criminali o da settori non compatibili con la propria carta etica, ad esempio da quello del tabacco, del nucleare, degli armamenti e così via». Qui, poi, si apre anche un dibattito di carattere etico: «Qualcuno pensa che nel nostro campo vada adottato un approccio utilitarista: poco importa da dove vengono i soldi, basta che vengano usati per fare del bene. Sono, queste, problematiche ancora molto discusse anche al nostro Centro». 

Centro di Filantropia

È proprio parlando del Centro di Filantropia di Ginevra, nascita e sviluppo, che concludiamo l'intervista. «Nel 1988 ho cominciato a insegnare diritto societario: ciò mi ha permesso di vivere da vicino l'evoluzione della sensibilità sociale». E, con essa, lo svilupparsi di un quesito etico. «Le aziende, come diceva a suo tempo il premio Nobel per l'economia Milton Friedman, hanno quale scopo solo quello di massimizzare la redditività? O hanno anche una responsabilità sociale che dovrebbe portarle a prendere in considerazione non solo gli interessi degli shareholders ma anche dei cosiddetti stakeholders (dipendenti, fornitori, ambiente, comunità in cui operano)?». Oggi, afferma Peter, «il fatto che le compagnie abbiano una responsabilità che va al di là dei ricavi non è più oggetto di discussione». Ma sono quesiti di questo tipo che hanno portato il professore a constatare che l'Università di Ginevra, «pur essendo la città sede di molte importanti ong, non proponeva programmi accademici in materia di filantropia». Dopo uno scambio con il rettorato, ecco l'idea: creare una cattedra legata al tema. Ma sotto quale etichetta? «Sociologia? Filosofia? Psicologia? Porre la filantropia sotto una facoltà precisa avrebbe voluto dire limitarne lo studio». La scelta, dunque, è stata un'altra: «Creare un Centro che si dedichi alla questione con un'ottica pluridisciplinare». Detto, fatto. Nato nel 2017, il Centro ginevrino ha oggi «più cattedre e facoltà, grazie alle quali affrontiamo temi innovativi e che possono portare un valore aggiunto a questo settore». Non solo sul come migliorare il fundraising, ma anche, ad esempio, «capire cosa spinga la gente a comportarsi in modo più o meno altruistico». Studi che toccano non solo la psicologia o l'economia, ma anche neuroscienze, sociologia, filosofia.