Aviazione

La storia di Korean Air, un tempo fra le peggiori compagnie al mondo

I recenti incidenti occorsi a JAL e Alaska Airlines riaccendono i riflettori sul tema della sicurezza aerea: ecco come il vettore sudcoreano ha saputo superare la crisi
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Mattia Darni
09.01.2024 10:30

Il recente incidente che ha coinvolto un aereo di linea della Japan Airlines scontratosi con un aeromobile della Guardia costiera all’aeroporto Haneda e quello del volo AS 1282 dell'Alaska Airlines hanno di nuovo attirato l’attenzione sulla sicurezza nel mondo dell’aviazione. Ecco allora che diventa interessante ricordare e ricostruire la parabola di Korean Air: la compagnia è passata dall’essere una delle peggiori al mondo tra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta all’essere una delle migliori oggi. Ad aiutarci a ritracciare la vicenda del vettore asiatico è il libro di Malcolm Gladwell Fuoriclasse – Storia naturale del successo.

Prima di procedere, tuttavia, una premessa è doverosa: con il nostro articolo non intendiamo in alcun modo suggerire che ci sia un nesso tra le ragioni che fecero di Korean Air una delle compagnie più insicure sul globo terrestre e quanto successo ai voli della Japan e Alaska Airlines; il nostro intento è semplicemente raccontare una storia curiosa.

Numeri inquietanti

Torniamo allora alla Korean Air e cerchiamo di inquadrare la situazione catastrofica in cui si trovava fino a un ventennio fa circa. Tra il 1988 e il 1998 il tasso di «perdite» di una compagnia aerea quale United Airlines era di 0,27 per milione di partenze. Ciò significa che, ogni milione di aerei decollati, 0,27 venivano persi a causa di un incidente. Se vogliamo rendere il discorso più concreto, ogni quattro milioni di velivoli partiti uno si schiantava. Nello stesso periodo, il tasso del vettore asiatico era di 4,79 per milione di partenze: il dato superava cioè di diciassette volte quello di United Airlines. La situazione di Korean Air era così disastrosa che, nel 1999, Delta Air Lines e Air France sospesero il rapporto di collaborazione con la compagnia orientale. Successivamente, fu l’esercito americano a proibire ai propri soldati di stanza in Corea del Sud di volare con la compagnia di bandiera del Paese in cui si trovavano. Per Korean Air i problemi erano comunque lungi dall’essere finiti: la US Federal Aviation Authority ne abbassò l’indice di sicurezza e, successivamente, le autorità canadesi considerarono la possibilità di togliere al vettore asiatico l’autorizzazione di sorvolare il Paese della foglia d’acero e atterrarvi. Lo smacco più grande arrivò però nel 1999: dopo che un jet per il trasporto passeggeri del vettore si schiantò il 15 aprile su un’area residenziale di Shanghai, il presidente sudcoreano Kim Dae-jung smise di volare con la compagnia di bandiera preferendole la neonata, e rivale, Asiana.

Il retaggio culturale all’origine degli schianti

I grattacapi per Korean Air erano insomma numerosi: ma qual era la loro origine? Per capirlo, spiega Gladwell nel suo libro, bisogna innanzitutto conoscere il parametro del «Power Distance Index» (PDI) teorizzato dallo psicologo olandese Geert Hofstede. Esso «misura» la considerazione e il rispetto dimostrati da una cultura nei confronti dell’autorità: nei Paesi in cui l’indice è basso, le persone ai vertici non si sentono «superiori» ai propri dipendenti i quali non hanno, dal canto loro, paura a esprimere la propria opinione ai capi qualora le vedute divergano. Discorso diametralmente opposto per quelle nazioni in cui il PDI è alto. Alla base degli schianti degli aerei della Korean Air, insomma, ci sono ragioni che rimandano al retaggio culturale del personale di volo.

Ora, la Corea del Sud è un Paese in cui il «Power Distance Index» è alto: pertanto, nel campo dell’aviazione, in caso il pilota di un aereo avesse commesso errori, il suo vice si sarebbe trovato in difficoltà nel farglieli notare perché avrebbe avvertito il peso della gerarchia. Secondo uno studio eseguito dagli psicologi Robert Helmreich e Ashleigh Merritt, addirittura, i sudcoreani erano secondi al mondo nella classifica dei Paesi il cui personale di volo presentava un alto PDI. Per far capire il livello di sudditanza che caratterizzava il rapporto tra gli ufficiali di grado meno elevato e il pilota, spiega Gladwell, basta notare che il pilota pretendeva che i suoi assistenti lo servissero al punto da preparargli la cena o comprargli regali. A determinare il «Power Distance Index» di un Paese è il suo retaggio culturale: guardiamo allora alla lingua coreana. Essa, possiamo leggere nel libro di Gladwell, «possiede non meno di sei diversi gradi di cortesia nella conversazione, che dipendono dalla relazione tra chi parla e chi ascolta: deferenza formale, deferenza informale, linguaggio schietto, colloquialità, intimità e comunicazione semplice». La comunicazione in molti Paesi asiatici tra i quali la Corea del Sud, per di più, è orientata al ricevente: è compito di colui che ascolta decifrare il messaggio che riceve. Nella cultura occidentale è il contrario: se una persona non capisce non è colpa sua, bensì di chi ha formulato il messaggio in quanto non è stato abbastanza chiaro.

Considerati tutti questi elementi, si capisce perché, in caso di problemi, il personale di volo di Korean Air li segnalava al comandante non in modo diretto, ma attraverso delle allusioni dettate dal rispetto della gerarchia. Tale forma di comunicazione è tuttavia poco efficace. L’allusione è la richiesta più difficile da decodificare e la più facile da rifiutare. Proprio per ovviare al pericolo di una comunicazione inefficace, le maggiori compagnie aeree organizzano dei corsi di gestione delle risorse umane allo scopo di insegnare ai membri dell’equipaggio di grado meno elevato a comunicare in modo chiaro con i propri superiori e a far valere il proprio punto di vista.

La svolta

Dopo lo smacco, l’ultimo, costituito dal rifiuto del presidente sudcoreano a volare con la compagnia di bandiera, anche Korean Air si mosse in questa direzione. Nel 2000 assunse così in qualità di direttore delle operazioni di volo un esterno, David Greenberg della Delta Air Lines. La prima cosa che fece Greenberg fu un test di inglese agli equipaggi e, sulla base dei risultati, organizzò dei corsi per migliorare le conoscenze della lingua in campo aeronautico. L'inglese diventò inoltre la lingua ufficiale del vettore. Con questa scelta il dirigente non intendeva imporre una sorta di «colonialismo culturale»: semplicemente, a livello internazionale, la lingua dell’aviazione è l’inglese. L’inglese permetteva poi di risolvere un altro problema insito nella lingua coreana: eliminare i diversi gradi di cortesia imposti dalla gerarchia. Così facendo, i membri dell’equipaggio erano messi tutti sullo stesso piano e quindi anche comunicare eventuali problemi a un superiore diventava più facile. Successivamente, Greenberg affidò l’addestramento e i programmi di istruzione a una consociata della Boeing, la Alteon. La cosa più importante che fece Greenberg, comunque, fu rendere coscienti i piloti dell’influsso che la cultura coreana aveva sulle loro pratiche di volo al fine di correggerne gli aspetti problematici.

Il cambiamento culturale introdotto da Greenberg portò i suoi frutti: oggi, infatti, volare con Korean Air è sicuro quanto farlo con le altre principali compagnie aree del mondo e il vettore fa parte dell’alleanza SkyTeam. Non solo, nel 2006 l’Air Transport World ha conferito a Korean Air il Phoenix Award a riconoscimento del netto miglioramento in termini di sicurezza.

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