Storia

La strage del Teatro Diana, dimenticato mistero italiano

Esattamente cento anni fa, il 23 marzo 1921, un devastante attentato anarchico nel centro di Milano, dai contorni e dagli obiettivi mai del tutto chiariti, favorì l’ascesa violenta al potere di Mussolini inaugurando con decenni di anticipo la sanguinosa stagione della strategia della tensione
Una grande folla assistette ai funerali delle vittime dell’attentato.
Roberto Festorazzi
23.03.2021 16:52

Un secolo fa, la notte del 23 marzo 1921, attorno alle 23, una violenta esplosione investì il Teatro Diana di Milano, gremito di spettatori per la rappresentazione della Mazurka blu di Franz Lehar. Una bomba, collocata da elementi anarchici individualisti, causò 21 vittime e decine di feriti. Lo sciagurato attentato ebbe l’effetto di favorire l’ascesa al potere di Mussolini, il quale trasse profitto dal «pericolo rosso» che terrorizzava la borghesia.

Eppure, l’episodio del Diana resta avvolto in una zona d’ombra così impenetrabile da essere classificato come il primo dei grandi misteri italiani contemporanei, paragonabile alla strage, altrettanto milanese, avvenuta in Piazza Fontana, il 12 dicembre 1969.Un fil rouge, quello della violenza politica di matrice sia nera sia rossa, che divampa fino a determinare una sorta di costante, nella «guerra civile» a diversi gradi di intensità che attraversa il Novecento italiano. La deflagrazione sventrò l’interno del teatro. Lo scoppio investì le prime quattro file di poltrone e la buca dell’orchestra. Diciassette persone rimasero uccise all’istante. La scena che si presentò ai soccorritori era da grand guignol: brandelli di carne sparsi in tutta la sala, arrossata di sangue, un frammento di calotta cranica ricoperto di capelli femminili vicino al palco numero 8, il tronco di un giovane corpo, forse quello di una bambina. La condanna fu unanime. Dilagò la rappresaglia dei fascisti contro i «rossi». Gli squadristi assaltarono la sede del giornale anarchico Umanità Nova e la redazione dell’Avanti!, il quotidiano del Partito socialista. Si accennava al mistero fitto che, ancora oggi, circonda l’episodio. Se è infatti vero che esiste una verità giudiziaria, che portò alla condanna dei tre esecutori materiali della strage, più altri sedici loro complici, è tuttavia innegabile che il verdetto finale lascia adito a più di una perplessità.

L’interno del Teatro Diana e come si presentava dopo il sanguinoso attentato.
L’interno del Teatro Diana e come si presentava dopo il sanguinoso attentato.

Troppe perplessità
La prima è che, come riconobbe lo stesso procuratore generale di Milano, Antonio Raimondi, presidente della Corte d’Assise che giudicò gli imputati, gli autori materiali dell’attentato (Giuseppe Mariani, Giuseppe Boldrini ed Ettore Aguggini: i primi due condannati all’ergastolo, il terzo a 30 anni di reclusione), non parteciparono alle riunioni avvenute in un’officina di via Casale che, secondo la pubblica accusa, rappresentava il cuore della cospirazione. Dunque, se i massimi responsabili della strage, risultavano scollegati con i loro stessi compagni, come poteva reggere il teorema tendente a includere nella preparazione del gesto una vasta trama di elementi politici vicini alla componente organizzata dell’anarchia? Siccome a pagare con dure condanne fu proprio, oltre ai tre che collocarono la bomba, la rete estesa di rivoluzionari che si radunava in via Casale, è palese che esiste una contraddizione tra le evidenze probatorie e gli esiti finali del processo, che si celebrò dal 9 maggio al 1. giugno 1922.

A ciò si collega il secondo dubbio storico. Così come si giunse tardivamente all’individuazione dei tre esecutori materiali della strage, risulta sospetta la mancata incriminazione di personalità che certamente ebbero un ruolo nella pianificazione del crimine. Vi è il caso dell’enigmatico O.C., noto per le sole iniziali, che non venne mai identificato. Ma vi è il fondato sospetto che costui rappresenti soltanto la punta di un iceberg. Sull’intera vicenda, aleggia anche la figura inquietante di Vittorio Taborelli, un anarchico di Villaguardia, paese alle porte di Como, che talune indiscrezioni indicano come uno dei registi dell’anticipo della strategia della tensione, che tenne in scacco Milano, tra il 1919 e il 1921. Taborelli, poi emigrato a Londra, potrebbe infatti essere il «compagno della provincia di Como» che uno degli autori della strage del Diana, Giuseppe Mariani, indicò come colui che avrebbe procurato, nell’agosto del 1919, «dieci cartucce di gelatina, due sacchetti di pirite, alcuni metri di miccia e alquanti detonanti». La datazione, tuttavia, induce a pensare che l’esplosivo fosse stato impiegato per l’attentato avvenuto la sera del 7 settembre 1919, nella Galleria di Milano, nel corso del quale perse la vita il solo autore del gesto, l’anarchico Bruno Filippi.

La prima pagina del «Corriere della Sera» dopo il tragico evento.
La prima pagina del «Corriere della Sera» dopo il tragico evento.

Pesanti indizi
Ma sfuggirono alla giustizia anche altri pesanti indiziati. Come la toscana Elena Melli, che fornì le indicazioni sull’obiettivo politico dell’attentato e sul luogo dove la bomba andava collocata. La Melli fu «coperta» perché non avesse a deporre verità imbarazzanti. Gli inquirenti erano in gravi difficoltà a suo riguardo, perché la donna era in una posizione delicatissima: compagna del leader anarchico Errico Malatesta, la Melli seguiva le trattative con le autorità per la scarcerazione dello stesso Malatesta e di altri due sovversivi detenuti a Milano. Il caso dei tre anarchici, che stavano conducendo uno sciopero della fame per protestare contro l’ingiusto provvedimento restrittivo, infiammò l’intera comunità dei «rivoluzionari» italiani. È in questo contesto di grande tensione collettiva che si colloca l’attentato. Se esso doveva servire come strumento di pressione sui pubblici poteri, affinché i capi anarchici fossero liberati, bisogna dire che l’obiettivo fu clamorosamente mancato, anzitutto per la gigantesca sproporzione tra il fine (legittimo) e i mezzi impiegati (il terrore). Lo scoppio di una bomba in un teatro suscitò una così grande ondata sdegno, che non si può che giungere a una sola conclusione: si trattò di un colossale errore, per la sottovalutazione delle conseguenze della strage. Infatti, anche nella tradizione degli anarchici individualisti, vi era una regola morale: quella di minimizzare il numero delle vittime innocenti di un attentato, per non far ricadere sul movimento la responsabilità di aver seminato sangue e distruzione.

Il vero bersaglio
Vi è dell’altro. L’esplosivo (una valigia con 160 cartucce di gelatina) non fu piazzato nel punto in cui avrebbe dovuto essere collocato. Gli esecutori materiali, infatti, posizionarono il micidiale ordigno davanti alla saracinesca del Teatro Diana più vicina all’omonimo Hotel di via Mascagni. L’albergo e il teatro erano infatti situati nello stesso corpo di fabbrica, l’edificio tardo-Liberty del Kursaal, divisi da un solo muro. L’obiettivo degli anarchici era il questore «di ferro» che teneva in galera i bombaroli: Giovanni Gasti. Il capo della polizia, in base ad informazioni in possesso dei sovversivi, alloggiava in una camera dell’Hotel Diana e la scelta di collocare l’ordigno sotto le sue finestre rispondeva al disegno di eliminare il «nemico pubblico numero uno». Soltanto che, alla fine, la bomba venne messa nel punto sbagliato, ossia in prossimità di un portale che non corrispondeva ai locali dell’albergo sottostanti la camera del questore, ma al teatro. Dunque, quel cambio di posizionamento di pochi metri fu un fatale errore o non piuttosto un cambio di programma? Nel secondo caso, ci si dovrebbe arrendere all’evidenza che si trattò di una strage premeditata.

Quei sospetti su Carlo Frigerio

La strage del Teatro Diana ebbe anche, per quanto defilato, un protagonista svizzero: il militante anarchico Carlo Frigerio, nato a Berna nel 1878. Avvicinatosi agli ambienti rivoluzionari fin dal 1891, fu un esponente del milieu di Errico Malatesta. Espulso da mezza Europa, dal novembre del 1919, fu a Milano, redattore di Umanità Nova. Arrestato, il 17 ottobre 1920, con Malatesta, venne tuttavia scarcerato già nel mese successivo. Assolto nel processo che vedeva gli anarchici alla sbarra, con l’accusa di cospirazione contro lo Stato, fu arrestato il 24 marzo 1921, per sospetta complicità con i responsabili della strage del Diana, ma l’inchiesta lo lambì appena: dopo tre mesi, ottenne di nuovo la libertà. All’avvento del fascismo, riparò dapprima a Marsiglia, e poi a Ginevra. Morì nel 1966.