«La Svizzera voleva braccia e non bambini da crescere»

Ma quanti erano i bambini clandestini in Svizzera? «È difficile dirlo», afferma la psicologa e psicoterapeuta dell’età evolutiva Marina Frigerio che nei suoi saggi ha raccolto diverse testimonianze di figli di immigrati in Svizzera (vedi suggeriti). «Le famiglie degli stagionali – italiani ma anche iugoslavi, spagnoli e portoghesi – proprio perché soggiornavano illegalmente, vivevano nascoste e non venivano censite. I periodi di clandestinità variavano di caso in caso da pochi mesi a diversi anni. Gli esperti ritenevano che, all’inizio degli anni Novanta, nel Paese ci fossero circa 10-15 mila bambini nascosti. Secondo noi, la giornalista Simone Burgherr ed io, erano molti di più. Mi spiego. Secondo l’Ufficio federale degli stranieri, nel 1990 vivevano nella Confederazione 121.704 lavoratori stagionali, di cui 69.404 coniugati. Ipotizzando una media di due figli a famiglia, si arrivava dunque a calcolare che circa 140.000 bambini vivevano una situazione di separazione traumatica oppure crescevano nella solitudine della clandestinità. A questi andavano aggiunti i figli delle persone in possesso di un permesso per dimoranti temporanei e quelli dei lavoratori in nero, che a loro volta non avrebbero dovuto trovarsi in Svizzera. Nei decenni, quindi, centinaia di migliaia di famiglie sono state toccate dal fenomeno».

Tanti lavoratori stagionali non riuscivano ad ottenere il permesso di soggiorno per la famiglia nemmeno dopo parecchi anni di lavoro in Svizzera. Perché?
«Non arrivavano a soddisfare i requisiti legali: non disponevano di un “alloggio conveniente”, sufficienti mezzi finanziari o non potevano assicurare la cura dei figli. Ricordo poi che per riuscire ad affrancarsi dalla condizione di stagionale bisognava lavorare 5-4 anni di fila in Svizzera. Però alcuni datori di lavoro assumevano gli stranieri per periodi inferiori al dovuto, quindi a questi ultimi mancava il numero di settimane legali per considerare l’anno di lavoro e la conta doveva ricominciare da capo».
Torniamo ai bambini «reclusi in casa», quali tipi di difficoltà mostravano?
«La prima era la paura. Magari anche dopo essere usciti dalla clandestinità restavano timidi, spaventati dal mondo oppure erano tormentati dagli incubi. In certi casi esprimevano il loro malessere attraverso la rabbia, l’aggressività, forme d’ansia o di depressione. Molti di loro hanno accumulato lacune gravissime, non frequentando la scuola e i coetanei. I disturbi linguistici sono infatti una conseguenza frequente della clandestinità».
Anche in collegio, stando alle nostre fonti, la vita non era facile...
«Ogni istituto era una realtà a sé. Mi ricordo la testimonianza di una ragazza che a tre-quattro anni era stata portata in un istituto vicino alla frontiera. Si è ammalata a causa dei maltrattamenti: la picchiavano ogni giorno, la obbligavano a mangiare cose che non le piacevano e il suo vomito. Altri hanno ricordi meno duri della vita in collegio, ne vedono gli aspetti positivi. C’è comunque sempre la tristezza del distacco. La solitudine. La mancanza del papà e della mamma, di una casa. E anche per i genitori non è stato facile: nelle famiglie stagionali era forte la coscienza di costringere i propri figli a una vita durissima. Il senso di colpa è dunque una costante nel rapporto tra le generazioni».
Questi bambini «della frontiera» che uomini e donne sono diventati?
«Tanti sono riusciti, con l’aiuto di persone sensibili ed empatiche, a costruirsi una vita dopo quell’esperienza devastante. Magari hanno avuto figli e hanno cercato, insieme a loro, di riscattarsi. Ho conosciuto però anche persone che non hanno potuto elaborare quel dolore e si sono ammalate psichicamente, sono diventate tossicodipendenti o hanno iniziato a bere. E non hanno vissuto serenamente neanche la genitorialità. Visto il passato, non sono riuscite a farsi ispirare da nessuna esperienza positiva».
È possibile al giorno d’oggi ritrovare situazioni simili?
«Sì. Purtroppo anche oggi nei Paesi industrializzati tanti bambini vivono in condizioni precarie, senza che i loro diritti vengano rispettati. Sono soprattutto i figli dei migranti senza statuto legale e delle tante badanti cui si affidano i nostri anziani ma si nega il permesso di ricongiungimento famigliare. Questi ultimi crescono senza i genitori nei Paesi di origine. Pensando ai centri di accoglienza dei migranti, immagino ci siano persone che vogliono sottrarsi a quel triste destino. Così si danno all’illegalità insieme ai loro figli anche nella Svizzera e nell’Italia da cui un tempo si partiva. Nota positiva: mi sembra sia stato fatto tanto per il diritto alla scuola. Quindi tendenzialmente i bimbi clandestini possono aspirare ad un’istruzione».
Attualmente il dibattito sui migranti continua a tenere banco, tra chi inneggia alla costruzione di muri anti-criminalità e chi scende nelle strade per mostrare solidarietà. Cosa ne pensa?
«Prima di tutto è urgente ritrovare la bussola. Le migliaia di migranti, tra cui moltissimi minori, che annegano nel tentativo di raggiungere l’Europa rappresentano un’emergenza umanitaria. Nel Mediterraneo si sta consumando un Olocausto moderno. L’Italia e la Svizzera devono collaborare con gli altri Paesi europei e creare dei corridoi umanitari per chi fugge da guerre e miserie. Permettere a queste persone l’ingresso legale nel Continente. Chiudere le frontiere è un’idea controproducente anche dal punto di vista economico. Se si guarda all’esperienza degli ex stagionali, molti di loro sono rimasti nella Confederazione, si sono integrati. E ora rappresentano una forza che porta avanti il Paese».