La tenuta della globalizzazione e il destino delle grandi aree

Nella sintesi dell’Enciclopedia Treccani sulla globalizzazione si afferma che è un «termine adoperato, a partire dagli anni Novanta, per indicare un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo». Esistono altre definizioni più articolate, questa ha il pregio di non esser troppo tecnica. La globalizzazione ha occupato buona parte della scena negli ultimi decenni, con sostenitori e critici. In questi ultimi anni, poi, si è rafforzato il filone di quanti indicano l’esistenza di una deglobalizzazione, di una più o meno pronunciata marcia indietro. Tra gli esperti vi è anche chi parla di riglobalizzazione, cioè di una globalizzazione che esisterà ancora, ma in termini diversi. Vi è inoltre chi ritiene che la globalizzazione come l’abbiamo già vista continuerà a progredire, al di là di alti e bassi.
L'indicatore
Prima di avvicinarsi ad una tesi o all’altra, c’è un passo preliminare da fare: cercare di verificare sulla base dei dati disponibili se la globalizzazione in questi anni ha perso davvero il suo peso. In questa sede parliamo di globalizzazione economica, lasciando ad altre sedi gli aspetti sociali e culturali. I parametri attraverso i quali si può misurare il globale economico sono diversi, uno dei più diffusi è quello del peso delle esportazioni di merci e servizi sul Prodotto interno lordo mondiale. Una delle obiezioni possibili a questo parametro è che un Paese può esportare molto verso Paesi vicini e poco verso altri più lontani, frenando così il vero globale. Si può rispondere con due indicazioni: le statistiche mostrano che la diversificazione dei mercati di sbocco nel complesso è cresciuta negli ultimi decenni; inoltre, anche l’export verso Paesi non lontani può essere spesso l’inizio di una maggiore integrazione economica, con sviluppi successivi.
Le cifre
La serie storica della Banca mondiale sul peso percentuale dell’export sul PIL globale può dare un’ampia fotografia, dal 1970 al 2021. Se guardiamo alle cifre ponendo intervalli decennali, possiamo vedere il 12,8% del 1970, il 20,4% del 1980, il 18,9% del 1990, il 23,6% del 2000, il 28,8% del 2010, il 28,9% del 2021 (anno più indicativo, considerando che il 26,4% del 2020 è segnato dalla pandemia). Dunque, già da un primo esame può emergere come in realtà nel lungo periodo la percentuale dell’export sul PIL mondiale abbia mantenuto un trend di crescita. Per quel che riguarda l’appena concluso 2022, bisogna ricordare che la stessa Banca mondiale questo mese ha reso note le sue prime stime: aumento del 2,9% del PIL globale e incremento del 4% del volume di scambi economici; se questi dati saranno confermati, vorrà dire che c’è stato un altro anno di export elevato.
Nel 2008 la percentuale ha toccato il picco del 31%, poi gli effetti della crisi finanziaria ed economica conosciuta come «dei mutui subprime» hanno fatto scendere l’export al 26,4% nel 2009. Ma già dal 2010 è iniziata la risalita, che ha portato in seguito al 30% per quattro anni consecutivi, dal 2011 al 2014, e poi al 28,3% del 2015. Dal 2016 sono subentrati gradualmente gli effetti negativi della guerra dei dazi voluta dall’ex presidente USA Trump, ciò nonostante l’export a livello mondiale è arretrato solo in modo relativo ed ha finito per risalire al 29,2% nel 2018 e attestarsi al 28,3% nel 2019. Nel 2022 le tensioni geopolitiche ancora esistenti tra USA e Cina, a cui si è aggiunta la guerra in Ucraina causata dall’invasione russa, hanno provocato battute d’arresto negli scambi economici ma, come visto, le prime stime a consuntivo mostrano per ora una tenuta complessiva dell’export.
Le prospettive
Questi e altri dati non indicano quindi che sia in corso una vera deglobalizzazione. Le cifre possono semmai tenere aperta la strada o alla continuazione della già vista globalizzazione economica, pur con oscillazioni, o alla riglobalizzazione. Quest’ultima viene descritta da tanti come il ritorno a catene di rifornimento molto più corte e come il rafforzamento di aree economico-politiche più omogenee. Le aree principali dovrebbero essere Stati Uniti e Nord-Centro America, Unione europea ed Europa, Cina e alleati. Vedremo se così sarà, ma vale la pena di dire già da ora che questa riglobalizzazione non è una direzione di marcia ormai scontata. Per almeno due motivi di fondo: all’interno di queste grandi aree esistono comunque diversificazioni quando non divergenze; le grandi aree, quand’anche si facessero e si chiudessero a riccio, non potrebbero poi bastare a sé stesse, se non rinunciando nel lungo termine a una parte del proprio benessere; dovrebbero quindi riaprire, prima o poi, la via del libero scambio e dei necessari accordi multilaterali globali.

E la Svizzera?
Per molti aspetti la Svizzera è una dimostrazione della possibilità per un Paese di mantenere la propria autonomia politica e di procedere al tempo stesso nel percorso della globalizzazione. Dati e fatti mostrano in effetti che la Confederazione elvetica è riuscita sin qui a mettere insieme le due cose, cioè la difesa delle sue caratteristiche politiche e una accentuata apertura economica che l’ha portata ad un alto tasso di globalizzazione. Una formula che non può assicurare la mancanza assoluta di problemi (quale formula d’altronde può farlo?) ma che è risultata nel complesso chiaramente vantaggiosa, come si può vedere anche dalla solidità di fondo che l’economia elvetica ha registrato e continua a registrare.