La tragedia del Pertini svela che la maternità ha anche un lato oscuro
«Neonato morto soffocato all’ospedale Pertini di Roma». È il titolo di una notizia che la scorsa settimana è rimbalzata su tutti i media italiani. Una vicenda che fa venire i brividi per l’infinito dolore e lo strazio. Un bimbo nato il 5 gennaio, morto nella notte tra il 7 e l’8. La mamma si sarebbe addormentata, stremata, mentre lo allattava, accasciandosi sopra di lui. Quello che è successo realmente in quei drammatici momenti spetterà agli inquirenti stabilirlo. La procura ha aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Ma le parole della donna, intervistata dal Corriere della Sera, sono come un pugno nello stomaco: «Ero stravolta, ho chiesto ripetutamente aiuto alle infermiere, domandando loro se potevano prendere il bambino almeno per un po’. Mi è sempre stato risposto che non era possibile portarlo nella nursery. Due notti ho resistito, l’ultima ero affaticata. Mio figlio è nato in salute. Poi, d’un tratto, non c’era più». Parole che fanno male. E che per chi è mamma suonano ancora come più terrificanti. Sì, perché è capitato a tutte di addormentarsi con il piccolo o la piccola nel letto. «Ma noi abbiamo avuto fortuna, lei no», scrive Assia Neumann Dayan su Linkiesta. Ancora più raccapricciante è leggere le testimonianze in prima persona di altre donne. La tragedia di Roma ha infatti aperto una crepa gigantesca sul mondo della maternità. E le esperienze negative raccontate da mamme e da papà ormai non si contano più.
Bene, viene da dire, perché di certe cose bisogna parlarne. Se se ne parla, si crea conoscenza, condivisione. E, soprattutto, si normalizza qualcosa. Che in questo caso è un concetto solo, uno e unico: la maternità non è tutto rose e fiori. E, soprattutto, non può essere una narrazione a senso unico.
Un’immagine edulcorata
«Le donne partoriscono da sempre», «è una cosa naturale», «anche gli animali fanno nascere i loro piccoli da soli», «sarà il periodo più bello della tua vita», «darai un senso alla tua intera esistenza». Quante volte abbiamo sentito pronunciare queste frasi. Una visione edulcorata della maternità, che è entrata a fare parte della cultura. «Non si parla mai delle difficoltà che la mamma si trova ad affrontare, l’ambivalenza vissuta in quel momento e in quel periodo. Eppure, sarebbe finalmente ora di dare un’immagine più variegata, più completa e accurata della maternità». A parlare è Laura Lazzari Vosti, che si occupa di Motherhood Studies e lavora in qualità di collaboratrice scientifica per la Fondazione Sasso Corbaro per le Medical Humanities. E che, attualmente, è responsabile di un progetto di ricerca in collaborazione con la George Washington University il cui scopo è quello di comprendere i vissuti materni nella cultura contemporanea, facendo dialogare scrittura e scienza, e lasciando emergere nuovi modelli che metteranno in discussione la tradizionale immagine materna, spesso univoca e stereotipata. Un’ottica più globale, insomma, «per capire cosa si aspettano e di cosa hanno davvero bisogno le madri». Partendo proprio dalle loro narrazioni.
Aspettative, realtà, bisogni. La realtà della maternità è molto più complessa della visione sociale che si ha di essa. Motivo per cui la ricerca – che avrà una durata di almeno tre anni – si basa sulle narrazioni. I racconti delle dirette interessate. «Dalle prime testimonianze raccolte emerge come durante la gravidanza ci sia un’attenzione quasi maniacale verso la mamma, la sua salute. Test e controlli si moltiplicano. Lei si sente seguita, anche se a volte le cure sono percepite come eccessive – prosegue Lazzari Vosti -. Quando poi nasce il bambino, pervade un senso di abbandono. È come se la donna diventasse invisibile. E ciò avviene nel momento più delicato per lei, in cui si sente estremamente vulnerabile. Sono sensazioni che spesso neppure lei si aspettava di provare e che si trova ad affrontare in completa solitudine». L’attenzione si focalizza completamente sul nascituro e, come già detto, si pretende che tutto sia così «naturale». Le contrazioni, il dolore, il parto, l’allattamento.
Inadeguatezza e sensi di colpa
Eleonora Bianchini, giornalista del Fatto Quotidiano, ha voluto raccontare le sue sensazioni in un articolo che negli ultimi giorni è stato citato a più riprese. E che, qui, riprendiamo anche noi: «”Mamma, stanotte la teniamo al nido un paio d’ore, però domani ti vogliamo sul pezzo”. Questa è pazza, ho pensato. Anzi no: sono io il problema. Sono io che sono troppo “molle”, inadeguata. Che pretendo di potermi riposare qualche ora visto che non chiudo occhio da tre giorni. Sbaglio, è evidente. Dovrei essere a totale disposizione della mia piccola, riporre in un angolo il mio dolore fisico, la mia stanchezza straziante dopo un travaglio interminabile. Sono tornata a casa convinta che mia figlia avrebbe ricordato a vita il mancato allattamento come una mia mancanza, che l’attaccamento meraviglioso di cui mi parlavano al corso pre-parto era un’esperienza che non mi sarebbe appartenuta. Che non ero stata capace di farla nascere come tutte le donne sono programmate per fare. Che se avevo bisogno di dormire ero un’egoista che non si era resa conto che mettere al mondo un figlio implicava sacrificio. E che io non ero disposta a farne. Mamma: quanta violenza, quanto giudizio può creare questa parola. Il fatto che tutti ti chiamino solo “mamma”, che il tuo nome sparisca, mentre sei in ospedale, dovrebbe farti sentire come un soldatino reclutato felice di stare in prima linea, non come una persona svuotata della sua identità o meglio, che ne ha una nuova che spazza via con un colpo di spugna quella precedente».
Ecco, la maternità è anche questo. È avere tra le braccia il proprio bambino e sentire un amore inquantificabile. Ma è pure stanchezza, senso di inadeguatezza, giudizio. E colpa. Quella che la donna sente perché è stanca, le viene da piangere, ha male ovunque, si sente uno schifo. E nessuno le ha detto che sarebbe successo. Le altre donne, quando diventano mamme, sono di conseguenza migliori di lei.
Da mamma a mamma
«Si tende a pensare che la nascita di un figlio sia solo un evento gioioso. Ma è un momento di vulnerabilità, che può essere accompagnato da fatica, stanchezza, insicurezza, anche da brutti pensieri in alcuni momenti». Isabella Pelizzari Villa fa parte dell’associazione Nascere Bene, un gruppo di genitori, nonni, levatrici, doule, amiche e amici, che desiderano promuovere le conoscenze e le opportunità che permettano al numero più elevato possibile di bambini di «nascere bene». Una comunità che lo dice a chiare lettere: le rappresentazioni della società impediscono di vedere la maternità com’è realmente. L’associazione punta pertanto su una «condivisione tra pari»: «Mettiamo in contatto le donne, affinché possano condividere la loro esperienza in un gruppo di auto aiuto. Ciò consente loro di sentirsi capite, ascoltate, e in questo modo di contrastare sentimenti di solitudine e di inadeguatezza». Il gruppo di auto aiuto «Riparto dal mio Parto» aiuta a ricucire alcune ferite, cicatrici e sensi di colpa, e a (ri)prendere fiducia nelle proprie capacità (il prossimo appuntamento è in programma il 16 febbraio a Lugano).
Ma non c’è solo l’auto aiuto. Quando si affronta una gravidanza, è bene essere a conoscenza delle possibilità di sostegno che l’ambiente sociosanitario offre. Dal primo giorno al post parto. «La doula, ad esempio, fornisce un sostegno emotivo e pratico durante la gravidanza, il parto e il post parto. Si occupa di accudire la mamma senza giudizio e rafforzare le sue competenze, oltre a fornire aiuto pratico in un momento di stanchezza e difficoltà». Anche Laura Inderwildi Bonivento, doula, fa parte dell’associazione Nascere Bene e anche lei pone l’accento sulla consapevolezza: «Per trovare un equilibrio serve tempo. Tempo che bisogna prendersi. Chiedere e avere un aiuto, anche a levatrici indipendenti (coperte dalla cassa malati già prima del parto), non è una forma di debolezza, anzi. Consente di parlare di paure e dubbi sul parto e il post parto. Perché se si prende coscienza del fatto che queste emozioni e questi sentimenti potranno comparire, e che è normale non sentirsi “super mamme”, ci si sentirà meno inadeguate e la paura di parlarne lascerà il posto alla consapevolezza».
Rooming-in, né da decantare né da demonizzare
Avere il piccolo tra le braccia sin da subito, tenerlo in camera con sé anche la notte durante la degenza. «La prima volta che ne ho sentito parlare era al corso preparto. A giudicare da quanto diceva l’ostetrica pareva il sogno di tutte – scrive ancora la giornalista Eleonora Bianchini -. Posso però dire che, nella mia esperienza, quella pratica decantata come il paradiso in terra del rooming in sia stata ingestibile in ospedale. Fisicamente e psicologicamente». Rooming in. Dopo la tragedia di Roma se ne sente parlare e molto è stato scritto. Ma di cosa si tratta? Un modello promosso dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e dall’UNICEF per sostenere il contatto tra neonato e mamma, sin dalle prime ore dopo la nascita, che permette al piccolo e alla neomamma di condividere la stanza 24 ore su 24. «La pratica dovrebbe sostituire quella di tenere madre e figlio in camere separate e a contatto soltanto durante “visite” programmate, perché presenta una serie di importanti vantaggi: per esempio, facilita il crearsi di un legame affettivo, rende possibile l’allattamento al seno tutte le volte che il neonato sollecita nutrimento e permette un contatto più stretto con il padre e gli altri familiari», si legge in una dichiarazione congiunta. Nel 2008 anche l’Ente ospedaliero cantonale (EOC) ha ricevuto il riconoscimento da parte dell’UNICEF «Ospedale amico dei bambini», rilasciato alle strutture che dimostrano di assegnare maggiore spazio alla relazione madre-bambino promuovendo l’allattamento al seno. Benissimo. Ma 24 ore su 24, per una donna esausta fisicamente e psicologicamente, può non essere la modalità migliore, nel singolo caso. Così come l’allattamento, che è una scelta personale ma dipende anche da fattori fisici. «Garantire la possibilità del rooming in è sicuramente una buona decisione per proteggere i diritti della donna e del bambino – dice Laura Inderwildi Bonivento -. Però, è fondamentale rispettare i tempi di entrambi. Ci vuole sensibilità». Una mamma che dice di essere stravolta dopo un lungo travaglio dovrebbe essere ascoltata e rispettata. E non spaventata o giudicata. «Guarda che quando tra qualche giorno tornerai a casa non avrai noi ad aiutarti, dovrai occupartene da sola». A volte le parole che una donna si sente dire nella camera della struttura sanitaria in cui ha partorito, hanno lo stesso effetto di un pugno in pieno volto. Non c’è una regola generale, ogni donna, e ogni parto, è un caso a sé. E andrebbe rispettato, capito, ascoltato. Con empatia.
«La pratica del rooming in non deve essere demonizzata in quanto tale – aggiunge Isabella Pelizzari Villa -. Quanto piuttosto il modo di attuarla. Bisogna porsi all’ascolto della mamma e capire di cosa ha realmente bisogno in quello specifico momento». Esprimersi, essere sentite e comprese. Perché quella mamma è la stessa donna che ore prima è entrata in reparto, che ha passato nove mesi incinta, che ha una personalità, un lavoro, una vita. «Bisogna smettere di infantilizzare le neo-mamme – spiega Laura Lazzari Vosti, che è anche educatrice perinatale -. Sono in grado di ragionare e di scegliere. È ovvio, serve un’informazione adeguata basata su evidenze scientifiche. Ma è importante che, nel momento opportuno e in situazioni che magari neppure si aspettavano, possano sentirsi libere di decidere della loro situazione personale, senza subire dei giudizi».
Consigli che pesano di ansie
Giudizi. E consigli non richiesti. Quanto ancora si potrebbe dire e scrivere al riguardo. «Non tenerlo troppo in braccio, altrimenti lo vizi. Fallo dormire sul fianco, non sulla schiena. Non dargli il ciuccio. Ma non lo allatti? Sei sicura abbia mangiato a sufficienza? Il papà ti aiuta? Stai dimagrendo troppo in fretta, mangi abbastanza? Guarda che hai bisogno di nutrimento per allattarlo. Se ha le coliche tienilo in questo modo, tutti i bimbi le hanno. Non farlo dormire con voi, altrimenti non uscirà mai più dal lettone». Giudizi e consigli indesiderati. Che a volte arrivano anche dalla stretta cerchia familiare. Spesso senza cattiveria, ma è come se ognuno si sentisse in diritto di dire la sua. «Un tempo c’era il villaggio che si prendeva cura della mamma e del neonato. Oggi, invece, si porta avanti l’idea della super mamma, l’eroina che fa tutto da sola. Ma non è così», aggiunge Lazzari Vosti. «Per crescere un bambino ci vuole ancora “un villaggio”. Ma spesso non si ha il coraggio di chiedere aiuto, subentrano la vergogna e il senso di inadeguatezza. Dall’esterno piovono consigli, che magari non sono neppure più attuali. Si carica la mamma di ansie, anziché aiutarla e sostenerla. In quel momento serve qualcuno che si prenda cura di lei, che le prepari da mangiare, che le consenta di riposarsi, di fare la doccia. Non indicazioni non richieste. Perché magari queste non vanno nella direzione che la donna ha scelto. Lei è l’unica che può decidere del bene della sua famiglia e ogni famiglia deve trovare la modalità che funziona meglio per sé. Affinché ciò avvenga, è importante che le informazioni fornite siano adeguate, basate su dati scientifici, e che provengano da professionisti qualificati, non da credenze popolari che finiscono per generare confusione e sensi di colpa».
Ognuna è unica e diversa
Il cambiamento (sociale) parte dall’educazione. All’ascolto, al rispetto, all’empatia. E all’individualizzazione. Perché quello che vale per una, non per forza andrà bene per tutte. E ciò non significa spaventare future mamme e papà o infondere in loro paure immotivate e pregiudizi. Ma renderli coscienti di come potrebbero andare le cose, nel bene e nel male. Istruirli, insomma, e renderli consapevoli di quello che sarà. Perché arrivare al travaglio impreparati e disorientati, scrive l’ostetrica Lucia Bianco, è come vivere un horror. «Io credo si debba investire anche nella formazione del personale – aggiunge Pelizzari Villa -. La formazione medica è sempre più specialistica ed è meraviglioso. Ma la medicina tende a diventare più scienza e meno arte. Fatica a porsi all’ascolto del paziente. È importante non sottovalutare la relazione di cura, sia nella formazione iniziale, sia in quella continua. Seguire dei corsi per favorire la qualità dell’ascolto e la capacità degli operatori sanitari di mettersi nei panni dei pazienti, valorizzare la loro prospettiva». Le donne, più vulnerabili soprattutto nel post parto, non devono essere lasciate sole. «Neppure dal compagno, in alcuni casi costretto a rispettare degli orari di visita, come se la sua figura non fosse fondamentale quanto quella della madre».
Nascere Bene, a tal proposito, ha lanciato un appello «per un’esperienza positiva di parto» affinché, tra le altre cose, nei reparti Maternità si offrano delle «camere famiglia». C’è poi l’esempio vodese dell’ospedale universitario di Losanna: d’ufficio, vengono proposti due incontri alle neomamme. Nel primo incontro è possibile discutere con una levatrice specializzata e altri operatori, «un momento in cui emergono punti di forza ma anche bisogni specifici, fragilità e paure». Al secondo, dopo il parto, è presente una psicologa con cui è possibile condividere l’esperienza vissuta, a cui porre domande per ricevere aiuto e spiegazioni». L’associazione organizza - con cadenza settimanale a Lugano, Locarno e Bellinzona - pure «incontri da mamma a mamma», uno spazio libero e un luogo protetto e intimo, dove le mamme possono ritrovarsi dopo l’esperienza del parto per parlarne, confrontarsi, creare amicizie, approfondire gli argomenti in assoluta libertà, e se lo desiderano condividere i propri vissuti concreti ed emotivi trovando accoglienza, rispetto e non-giudizio. «Le donne e le coppie possono prepararsi a quello che li aspetta cercando informazioni nei luoghi più appropriati – aggiunge Pelizzari Villa -. È fondamentale per crearsi una fiducia in sé e nelle proprie capacità, essere consapevoli delle scelte e delle possibilità che esistono e dei diritti che si hanno. Si diventerà più consapevoli del fatto che non c’è un’unica ricetta per essere genitori, che funziona per tutti. Ma ognuno costruirà il suo modo. Che è giusto per sé e il proprio bambino in quel preciso momento. Un bene che va sostenuto e protetto».
Partire da lei
Insomma, ammettiamolo: maternità non fa sempre rima con felicità. Ogni donna è unica e ha il diritto di sentirsi chiedere, sinceramente, «come stai?». Affinché non si parli più di mamme lasciate sole. E che, nelle tragedie, non si debba pensare «poteva accadere a tutte noi». Occorre che la società, i medici, le strutture sanitarie, guardino alle donne e al parto in modo «personalizzato». Che non si pretenda che le neo mamme siano «sul pezzo». Occorre investire su una nuova genitorialità che tenga conto di entrambi i genitori, dai corsi pre-parto alla conciliabilità famiglia-lavoro. La donna non può sentirsi soltanto come il mezzo per far nascere il bambino, passare da «contenitore» a «colei che sfama». In realtà, è fondamentale partire da lei: capire come sta fisicamente ed emotivamente. Ed è qui il punto: ogni donna è unica. Sì ai parametri, sì ai consigli con evidenze scientifiche, ma occorre flessibilità che consenta di rispettare la libertà della donna di decidere per sé e per il suo bambino. Perché (non sempre) basta guardare il piccolo per farsi passare lacrime, fatiche e dolori. Ci sono tanti modi per essere mamma e sono tutti (in questa narrazione) ugualmente validi.