L'intervista

«La vita di Silvio Berlusconi? Eccessiva, come in un romanzo»

Il 12 giugno di un anno fa moriva, a Milano, l’uomo che ha cambiato la politica italiana, e non solo – La sua vita è oggetto di una monumentale biografia dedicata al leader di Forza Italia dal giornalista e scrittore Filippo Ceccarelli
© KEYSTONE (AP Photo/Gregorio Borgia)
Dario Campione
12.06.2024 06:00

Il 12 giugno di un anno fa moriva, a Milano, Silvio Berlusconi. L’uomo che ha cambiato la politica italiana, e non solo. L’imprenditore che «volle farsi re», come ha scritto qualcuno. La vita di Berlusconi è oggetto di una monumentale biografia dedicata al leader di Forza Italia dal giornalista e scrittore Filippo Ceccarelli.

Congedandosi dal lettore, nelle ultime pagine del libro, lei scrive di non aver capito, alla fine, se il suo sia un racconto a favore o contro Berlusconi. Che cosa significa?
«In realtà, ho voluto proprio mettermi al di là e al di sopra, se possibile, degli schemi correnti. E comunque fuori di essi. Schemi che hanno trascinato il Paese, già in parte così, in una dimensione tribale, per cui il giudizio sull’attualità, sulla politica, sul potere assomiglia a uno scontro di tifoserie. Il mio intento, invece, era proprio scrivere un libro un po’ matto, un libro che non facesse sconti e che raccontasse la storia con una certa crudezza - perché il potere è crudo - ma che avesse anche una qualche forma di misericordia. Berlusconi non c’è più, e il fatto che sia morto ha spostato, ha modificato, diciamo, la prospettiva. Davvero non sono in grado di sapere se sia un libro a favore o contro. Lo accolgo più come una prova di buona fede. Perché raramente i libri pregiudizialmente schierati fanno capire le cose».

Dalla «discesa in campo» nel gennaio 1994 a oggi, lei ha raccolto una mole impressionante di documentazione: 334 cartelle, confluite adesso in un fondo depositato nella Biblioteca della Camera dei Deputati. Come ha fatto a dipanare la matassa così aggrovigliata del Berlusconi-pensiero?
«Ho seguito il filo degli appunti che ogni mattina prendevo scorrendo articoli, saggi, libri. Letture che, alla fine, mi hanno permesso di ricostruire un periodo abbastanza lungo e di tentare un bilancio sul complesso dell’epoca berlusconiana. Il libro, in realtà, è una biografia vera e propria, un percorso necessariamente cronologico, nel quale alla sequenza degli eventi si sovrappongono aree tematiche: la nascita della televisione privata, il rapporto con gli alleati di governo, gli scandali sessuali e così via, sino alla fine».

Una fine un po’ crepuscolare, non priva di mestizia.
«Sì, certo, come tutte le storie che finiscono. E questa, in particolare, è una storia lunga, di successi e insuccessi, in fondo alla quale c’è una dimensione di malinconia e, per certi versi, perfino di poesia. Tutti siamo consapevoli, e Berlusconi non faceva eccezione, di cosa dobbiamo aspettarci».

Sin dal titolo del suo lavoro, lei propone il «troppo», l’eccesso, come chiave di lettura del berlusconismo. È così?
«L’eccesso è un elemento, come dire, unificante, dell’esistenza di Silvio Berlusconi. Non so se questo sia un giudizio, ma nessuno, come lui, ha osato varcare confini, forzare situazioni, andare fuori misura. La vita del Cavaliere è un romanzo nel quale confluiscono il potere, i quattrini, l’invenzione di cose nuove, il boato degli stadi, il sesso, le donne. E poi la mortificazione, la cacciata dal Parlamento, la condanna. Quindi il ritorno, il riscatto dei servizi sociali. Sino alle finte nozze, qualcosa che lui soltanto avrebbe potuto fare. Sì, una vita eccessiva».

È stato un uomo di geniale ambiguità e di ambigua genialità. Un uomo che ha scambiato la propria esistenza per un’opera d’arte

Nel suo racconto, però, volutamente non si parla in modo diffuso di uno degli argomenti più controversi, ovvero i presunti rapporti con la mafia siciliana. L’ombra più scura che si è addensata sulla figura di Berlusconi.
«Ricordo che all’inizio degli anni Duemila la BBC mandò in onda un documentario su Berlusconi accompagnandolo con le musiche del Padrino. Viene da chiedersi se, per vent’anni, siamo stati governati da un gangster. Spesso accade, nelle questioni italiane, di sospettare senza avere prove, qualcosa di tipico della natura sfuggente e ambigua di questo Paese. Su Berlusconi e la mafia esiste una vasta letteratura che, diligentemente, ho affrontato senza tuttavia riuscire a farmi un’idea compiuta di quanto realmente è accaduto. Molto appare verosimile e io stesso ho ripreso la testimonianza di una donna, una delle tante amanti, che ricorda come il Cavaliere, da giovane, a un certo punto ebbe una gran paura, forse giustificata da qualche brutto incontro precedente con persone che gli erano comunque servite. È un elemento che, lo dico onestamente, ho riportato con il beneficio del dubbio e dell’inventario».

Nessuna certezza, quindi.
«No, nessuna. Onestamente, non penso che l’Italia sia stata governata da un gangster, non è nei miei poteri e nel mio sguardo poterlo motivare al 100%. Anche per questo ho affrontato la questione con un paragone di tipo letterario, parlando di un patto con il diavolo, cosa che non necessariamente significa mettersi d’accordo con la mafia. Chiunque è minimamente ambizioso sa che, nella propria vita, i patti con il diavolo ogni tanto si possono anche fare. Nel caso specifico di Berlusconi, c’è qualcosa che consente di poter pensare a un patto con il demonio, mi sono rifugiato nelle braccia della grande letteratura in qualche maniera per uscire da un’impasse. La cosa sorprendente è che, leggendo e rileggendo Goethe, ho scoperto che Faust alla fine si salva. Nel momento della morte, gli angeli riescono a distrarre Mefistofele, che era venuto a ritirare il pegno dell’anima, e trascinano Faust in paradiso. Ma c’è un altro punto».

Quale?
«Scrivendo il libro, avevo paura che gli aspetti criminali potessero prendere il sopravvento su tutto il resto, come in parte era successo quando Berlusconi era al potere e lo si trattava come se fosse un criminale. L’aspetto della giustizia è molto importante, ma limitare la biografia a questo mi sarebbe sembrato un limite fortissimo, tanto più dopo che il Cavaliere era morto».

I nostri lettori sanno benissimo chi sia stato Silvio Berlusconi. Ma se lei dovesse tratteggiarne la figura a chi non frequenta assiduamente la politica italiana, che cosa direbbe? Chi è stato, davvero, Silvio Berlusconi?
«È stato un uomo di geniale ambiguità e di ambigua genialità. Un uomo che ha scambiato la propria esistenza per un’opera d’arte, tentando di portarla a compimento a dispetto di tutto e di tutti, con una faccia di bronzo che quasi sempre lo ha protetto dai molti errori che pure ha commesso».

Un uomo che, tuttavia, ha cambiato radicalmente la politica e la società italiane.
«Sicuramente. E direi che lo ha fatto prima di scegliere la politica, cominciando anni prima a forgiare un cambiamento ormai dentro la testa delle persone. Ha incarnato e interpretato una temperie e sfruttato il momento in cui il soggettivismo e l’individualismo cominciavano a riprendere forza e le merci e il potere dei consumi dilatavano il proprio potere grazie alla pubblicità. Non solo: in un tempo in cui non esiste più il passato e, di conseguenza, nemmeno più il futuro, ma soltanto un eterno presente, ha separato la cultura dalla politica. Ed è approdato quasi naturalmente verso il governo della cosa pubblica concependola come una realtà privata, trasformando l’etica del bene comune in estetica del consenso. L’Italia, per una serie di ragioni che affondano nella sua storia, con Berlusconi è diventata un laboratorio nel quale sono stati costruiti i prototipi di personaggi finiti poi in giro per il mondo, a cominciare da Donald Trump».

Oggi ricorre il primo anniversario della morte di Berlusconi, ma ieri ricorreva il 40. anniversario della scomparsa di Enrico Berlinguer, il segretario del Partito Comunista amatissimo dal suo popolo. È una strana coincidenza il fatto che il calendario affianchi due personaggi la cui storia è probabilmente agli antipodi. Il passaggio dall’Italia di Berlinguer a quella di Berlusconi è stato una sorta di capovolgimento totale, non crede?
«Non c’è dubbio. Un capovolgimento avvenuto tuttavia in breve tempo: dalla morte di Berlinguer all’avvento del Berlusconi politico passarono infatti 10 anni, un nulla nella storia. Il comizio di Padova durante il quale il capo del PCI ebbe un ictus fu il congedo glorioso e drammatico di un sistema. Con la morte di Berlinguer cominciò a morire anche la prima Repubblica. Dieci anni dopo si assiste alla conquista dell’Italia da parte di un personaggio che nulla ha a che vedere con le culture politiche fin lì dominanti. Berlusconi arrivava da un altro mondo, quello delle aziende, dei consumi, della pubblicità. Lo scarto è enorme. Il Cavaliere interpreta sé stesso come un re, un monarca. Non è un presidente del Consiglio come gli altri: ha la Corte, i palazzi, si comporta e vive il proprio potere come un sovrano antico, assoluto. A un periodo storico che aveva la carta stampata come medium di riferimento, subentra un mondo dominato dalla televisione. Tutto quello che era lento, diventa velocissimo, istantaneo. Quello che era in bianco e nero diventa a colori. L’analisi e il ragionamento si trasformano in seduzione».

Paradossalmente, ma forse nemmeno troppo, la fine del potere di Berlusconi coincide con l’esplosione dei social media, quando cioè il mondo della comunicazione televisiva viene a sua volta superato, scavalcato, dalla Rete.
«Sì, cambia la scena. Come nella prima Repubblica l’elemento chiave di comprensione della politica era il retroscena, così nella seconda, eminentemente berlusconiana, era diventata la messa in scena; mentre in quella attuale, nel nostro presente, è la scena oscena, ovvero l’ipervisibilità in cui si confonde l’oggetto con il soggetto. E il video postato in tempo reale equivale alla perdita del contegno del potere. È Giorgia Meloni che si autoproclama “stronza” davanti al presidente della Campania».