La voce di Gisèle Pelicot oltre le violenze
«Riconosce i fatti di stupro di cui è accusato?». «No». «Gisèle Pelicot era in grado di darle il proprio consenso?». «No». Il 62.enne Philippe L. era l’ultimo, tra gli imputati, a presentarsi davanti al giudice in quello che è stato ridefinito «Processo di Avignone», o semplicemente «Processo Pelicot». Su per giù, il suo interrogatorio però non si è discostato dai precedenti. E questo nonostante le testimonianze, i supporti video o audio presentati. Nonostante le pressioni di un Paese scioccato, il quale si trova a fare i conti con il lato peggiore della natura umana, dell’uomo, con la «u» rigorosamente minuscola. La Francia ora conosce una propria storia atroce, di uno stupro collettivo e continuato - dieci anni - ai danni di una donna, di una moglie, incosciente e inconsapevole perché più volte, ripetutamente, regolarmente, drogata dal marito e offerta a decine di sconosciuti contattati attraverso una chat. E quella che è sfilata, in queste settimane, nel tribunale di Avignone, è una Francia apparentemente comune: padri di famiglia, studenti, professionisti di ogni classe sociale, uomini tra tanti - alcuni dei quali giudicati «eccezionali» dalle loro compagne, altri invece sbandati o con altre storie di violenza alle spalle -, di varie età, dalla ventina alla settantina.
Il vero elemento di rottura di questa storia, però, va ricercato nella scelta della Signora Pelicot, di evitare l’anonimato e di accogliere il processo a porte aperte. Il senso di questa scelta è racchiuso in una sua dichiarazione: «Spesso quando si è vittime di violenza si prova vergogna, ma non siamo noi a doverci vergognare, sono loro». Gisèle Pelicot oggi ha 71 anni. Prima del verdetto finale, atteso per il 20 dicembre, ha rilasciato una decina di giorni fa la sua ultima dichiarazione in aula. Non voleva aggiungere granché. Ma il fatto è che ogni sua parola - accade dall’inizio del processo - assume un senso particolare, decisivo, rispetto alle nostre coscienze. «La società a questo punto deve guardare a come banalizza un tema come quello dello stupro e della violenza di genere», ha detto. Una banalizzazione emersa più volte, durante il processo, nelle risposte degli imputati. E così lo «stupro» diventava un «gioco erotico». E la sottomissione chimica era scambiata per compiacenza. Le stesse domande degli avvocati difensori andavano in questa direzione, ed emergevano accuse inappropriate di «esibizionismo» - «una segreta inclinazione?» - oppure distinzioni, della serie «c’è stupro e stupro». Non si sono fermati neppure di fronte alle prove schiaccianti, ai video registrati e catalogati dal marito, Dominique, all’interno di una cartella nel suo computer intitolata «Abus». Gli uomini che hanno violentato Gisèle sono almeno 83, di cui 54 identificati. Pochi hanno davvero ammesso i fatti. Pochi hanno riconosciuto le proprie colpe fino in fondo. Pochi hanno chiesto scusa alla vittima.
Tutte queste parole - quelle dette e quelle non dette -, e le immagini, e i ritratti, la fuorviante supposta «normalità» degli imputati, restano qui, nell’oggi del mondo tutto, non della Francia soltanto, a descrivere qualcosa di più che non un singolo, per quanto vergognosamente reiterato, caso di abuso. Rimarranno come una prova del fragile confine tra i sentimenti di onnipotenza e impotenza nell’uomo della nostra epoca. La storia di Gisèle Pelicot infatti va oltre le violenze subite, parla di una donna compiuta e riuscita, che guadagnava più del marito, che era più brillante del marito, più libera. Come ha spiegato la figlia della coppia - lei stessa ormai convinta di avere ricevuto lo stesso trattamento della madre da parte del padre -, lui non vendeva la moglie, voleva umiliarla. Una questione di potere, insomma. Ma Gisèle Pelicot ha comunque mantenuto intatta la propria identità. Si dice evidentemente «distrutta», ma non ha perso la voce, mai. Non ha voluto chiudere le porte di quell’aula. Non ha voluto censurare le immagini. Ha voluto parlare e rispondere a tutto. D’altronde non era lei l’imputata. In passato, le vittime di violenza venivano ulteriormente violate da uno stigma, dalla vergogna indotta, di una colpa che non c’era e che non c’è. Gisèle Pelicot - ribadiamo - lo ha detto subito: «Non sono io a dovermi vergognare. Non siamo noi, ma voi». E il fatto stesso che abbia dovuto sottolinearlo, deve interrogarci. Il fatto che abbia mantenuto viva e presente la sua voce, deve portarci a riflettere dell’importanza di insegnare alle nostre figlie a usare ognuna la propria. La propria voce. A dire no, a dire sì soltanto quando lo desiderano, a esprimersi, a essere libere di scegliere e di imporsi, di vivere secondo le aspirazioni, a chiedere giustizia e pari opportunità, a non rispettare i luoghi comuni, gli ostacoli dettati dal maschile a un equilibrio invece necessario. È un processo che segnerà la storia.