Val malvaglia

«Lassù riscriviamo il finale di una storia contadina»

Da oltre vent’anni Martino Pedrozzi e i suoi collaboratori salgono in altura per ricomporre il paesaggio alpestre
Un’immagine dei lavori effettuati a Giumello dutrante l’estate 2014 (Foto Pino Brioschi).
Carlo Silini
21.03.2019 06:00

Ci sono posti che muoiono lontano dal nostro sguardo. Prendete le alte valli, antichi luoghi di transumanza, dove non solo le cascine ma anche i boschi spesso vengono abbandonati al loro destino. Gli edifici si sfaldano e la vegetazione s’espande, selvaggia. È di questa realtà che parliamo nella terza puntata dedicata alle nostre valli che ci porta a Giumello, sul versante sinistro della Val Malvaglia, sito assai discosto. Ci sono dei sentieri, sì, ma non sono quelli escursionistici segnalati. Devi sapere come arrivarci e per arrivarci devi scarpinare per almeno tre o quattro ore. E proprio a Giumello (ma anche sull’alpe di Sceru, sempre in Val Malvaglia) da una ventina d’anni l’architetto Martino Pedrozzi, affiancato di volta in volta da gruppetti di volontari, ha deciso di spendere tempo ed energia per ricomporre un ambiente in «naturale» degrado. Un progetto singolare che nelle scorse settimane è stato presentato addirittura in America e del quale ne parliamo con il suo promotore.

Martino Pedrozzi lei sta lavorando da oltre vent’anni su un progetto che in un certo modo mette ordine in cima alle valli. Di cosa si tratta?
«È un progetto che tratta il tema dell’abbandono del patrimonio architettonico e paesaggistico rurale delle valli ticinesi. Consiste nel riportare tutte le pietre di crollo delle cascine crollate all’interno del perimetro originale delle cascine stesse, che in buon italiano si chiamano malghe. Siamo intervenuti sui monti dell’alta Val Malvaglia, a duemila metri d’altitudine e oltre. Questo equivale a un ripristino del volume della cascina come punto di riferimento nel paesaggio. Ma è anche un finale alla storia che sta dietro a queste cascine e che non è mai stato scritto. Gli edifici rappresentavano l’ultima stazione della transumanza, dove i contadini si recavano per due-quattro settimane tra agosto e settembre».

Nelle immagini di Pino Brioschi la rovina di una cascina a Sceru prima e dopo la ricomposizione.
Nelle immagini di Pino Brioschi la rovina di una cascina a Sceru prima e dopo la ricomposizione.

Quando è iniziato?
«Il progetto è nato su mia iniziativa, e lo porto avanti già dal 1994. Le rovine ricomposte in oltre vent’anni d’attività sono più di quaranta».
Come fate a sapere che le pietre che riportate nel perimetro originale sono davvero quelle che componevano le cascine?
«In realtà è piuttosto semplice. Le cascine quando crollano, non lo fanno mai del tutto e rimane sempre una traccia della fondazione. Il tetto e il muro crollano, il legname viene portato via o marcisce, ma le pietre rimangono sul posto. Non è possibile confondersi sulla loro origine, non c’è ambiguità».
Le fotografie attestano lo stato prima e dopo l’intervento. Un modo per non perdere la memoria nemmeno dell’abbandono. Una specie di estremo saluto a qualcosa che non c’è più. C’è un intento celebrativo in tutto questo?
«Le prime ricomposizioni le ho fatte grazie all’aiuto di Pino Brioschi, il fotografo che ha scattato tutte le foto che da oltre 20 anni documentano questo lavoro. Una sorta di intento celebrativo c’è perché si celebra la fine di questa civiltà. L’intervento rappresenta un finale, ma allo stesso tempo l’inizio di un nuovo significato per queste cascine».

Due immagini dell’Alpe di Sceru, nel 1994 e nel 2000 (Foto di Pino Brioschi).
Due immagini dell’Alpe di Sceru, nel 1994 e nel 2000 (Foto di Pino Brioschi).

Quale significato?
«Le malghe tornano ad essere delle testimonianze di ciò che sono state, testimonianze non più abbandonate, ma curate e con la loro collocazione precisa nel paesaggio».
A parte lei e il fotografo chi si è dato da fare per il progetto in questi anni?
«Piano piano si sono aggiunti a noi alcuni gruppi di volontari formati essenzialmente da famigliari, da amici, colleghi e da altre persone interessate al progetto. Quando, poi, nel 2016 sono diventato responsabile di un atelier di progettazione all’Accademia di Mendrisio come professore invitato, ho realizzato alcune ricomposizioni con i miei studenti. Non si tratta, tuttavia, di un’attività accademica, ma un mio progetto ventennale nel quale, in alcuni casi recenti, ho coinvolto anche i miei studenti. L’ho fatto perché ho ritenuto che fosse un’idea valida da un punto di vista didattico».
Qual è il prossimo passo?
«La ricomposizione dell’alpe di Luzzone prevista per l’estate prossima. In realtà questa volta l’intervento sarà di natura ancora un po’ diversa: in collaborazione col municipio di Serravalle porterò a 2.150 metri d’altitudine studenti provenienti dalle tre facoltà di architettura svizzere (Accademia di Mendrisio, Politecnico di Zurigo e Politecnico di Losanna). Qui si farà una ricomposizione nell’arco di un paio di giorni. Mi piace l’idea che studenti che provengono dalle tre regioni linguistiche principali si incontrino a oltre duemila metri per spostare sassi».
La vostra però non è un’opera di restauro.
«Può essere interpretata da vari punti di vista. Da un lato è un atto di tutela e restauro del paesaggio, di recupero delle malghe come punti di riferimento nel territorio e di ripristino dello spazio pubblico. Dall’altro, qualcuno può interpretare questo lavoro come una semplice pulizia dell’alpe. Tra le varie interpretazioni c’è anche quella per cui ha un senso portare a duemila metri degli studenti a svolgere questo lavoro, che è anche una specie di rito. Fisicamente le ricomposizioni ridefiniscono la volumetria delle rovine e ripristinano lo spazio che le circonda, sfociando in un lavoro sul paesaggio di cui beneficano i suoi fruitori. Il loro contributo più significativo è tuttavia immateriale e consiste nell’essere un atto di pietas verso la civiltà che ci ha preceduto. Non si può quindi parlare soltanto di un restauro».

Grazie al nostro lavoro le malghe tornano ad essere delle testimonianze di ciò che sono state, testimonianze non più abbandonate, ma curate e con la loro collocazione precisa nel paesaggio

Perché?
«L’architettura ha due componenti: quella pubblica e quella privata. Quella privata si riferisce agli spazi e alle funzioni interne, tutte quelle cose che riguardano chi usa l’architettura. Quella pubblica rappresenta il significato dell’architettura nel paesaggio, per il passante, per chi non usa e non abita questa architettura. Con questo lavoro noi cancelliamo la componente privata. Ricreiamo i volumi delle cascine, ma non sono più spazi, l’uso è escluso. Ed è escluso perché non c’è più un uso. Non ha senso dare un uso a queste strutture. Il significato di queste costruzioni è nel paesaggio e il paesaggio stesso circostante viene ripristinato».
Un restauro del paesaggio, quindi?
«Sì, attraverso il recupero della componente pubblica di quegli oggetti».
Ma non appartengono più a nessuno?
«Alcuni no, o meglio: si è perso memoria di chi siano i proprietari. Altri sì. Ma a quella altitudine quando una cascina crolla, in genere nessuno la rivendica più».

Sceru prima e dopo l’intervento paesaggistico (Foto Pino Brioschi)
Sceru prima e dopo l’intervento paesaggistico (Foto Pino Brioschi)

Forse perché costerebbe caro rimetterla apposto?
«Sì, ma anche e soprattutto perché sarebbe illegale. Non si possono ricostruire e rifare ex novo delle cascine a duemila metri d’altezza».
Cosa rappresenta questa iniziativa per i comuni della valle, in questo caso il comune di Serravalle?
«Autorità, amministrazione e persone apprezzano. Ho avuto solo riscontri positivi. All’inizio, quando ho cominciato, non ero certo di questa reazione. Mi immaginavo che qualcuno avrebbe potuto chiedermi di lasciar stare la memoria dei vecchi e di questi luoghi. Invece c’è stata la reazione opposta. Si è accolto in modo molto positivo il fatto che qualcuno si occupasse di qualcosa che suscita ancora forti emozioni e che era stato abbandonato».

Foto di gruppo dei volontari impegnati  nel 2014 a Giumello.
Foto di gruppo dei volontari impegnati nel 2014 a Giumello.

Il tema di fondo, quindi, è quello dell’abbandono nelle alte valli.
«Le ricomposizioni entrano nel tema generale dell’“abbandono”: qualcosa di costante nella storia dell’uomo a causa di conflitti, mutamenti climatici o economici, eventi naturali, ecc. Qui l’abbandono tocca degli insediamenti di montagna concepiti per un’economia alpina da poco scomparsa. Il nostro progetto è quindi un’alternativa concreta e coerente agli innumerevoli tentativi messi in atto nel recente passato per riconvertire e rivitalizzare queste realtà».
Il lavoro di ricomposizione dei ruderi è ammirevole dal punto di vista umano. Ma non altera, in un certo modo, l’equilibrio della montagna, anche quando la montagna e la natura riassorbono i manufatti umani?
«Non credo di ridisegnare la montagna. Parto da una preesistenza, lavoro su questo restituendo quel che può essere utile da un profilo paesaggistico e emotivo. Lo faccio anche attraverso una riduzione di quello che erano queste cascine. È un lavoro di ripristino su ciò che c’è. La mia persona è molto poco presente in tutto questo, tanto è vero che è rimasto sconosciuto per anni. Ora, grazie anche a dei premi (Premio Neues Bauen in den Alpen 2006; Premio Die Besten 2015; Premio SIA Ticino 2016; Premio Arc-Award 2016; Premio SIA Umsicht-Regards-Sguardi 2017, ndr), non è più così. Ma nella pratica si tratta di un lavoro che un passante che non abbia l’occhio allenato può anche non notare. Mi pare di rispettare la natura e la storia di quel posto. Questo non vuol dire che in altre circostanze non si possa fare qualcosa di più appariscente».
Del resto, col suo progetto, lei non si occupa soltanto di ricomporre delle cascine abbandonate.
«Esatto. La frequentazione di questi luoghi nel passato implicava una costante manutenzione delle cascine stesse. Tutte le estati venivano sistemate le pietre del tetto, eccetera. Ma anche una pulizia dei pascoli attraverso un’azione attiva di disboscamento, ma anche attraverso l’azione attiva degli animali. Questo oggi non avviene più, quindi le cascine vanno in rovina e il bosco avanza tendendo a cancellare il contesto all’interno del quale ci sono le malghe. Dopo vent’anni di ricomposizioni mi sono quindi detto che era necessario occuparsi di ciò che sta attorno agli edifici».

Alcune rovine di Lozzone che saranno ricomposte durante l’estate 2019 da studenti d’architettura dell’USI e del politecnici federali di Losanna e Zurigo.
Alcune rovine di Lozzone che saranno ricomposte durante l’estate 2019 da studenti d’architettura dell’USI e del politecnici federali di Losanna e Zurigo.

E cosa avete fatto?
«Con i miei studenti dell’Accademia pochi mesi fa, in ottobre, in accordo con il patriziato e le autorità locali siamo stati a Sceru e abbiamo realizzato un lavoro di disboscamento. Abbiamo stabilito una quota di riferimento, duemila metri precisi che passano proprio da un pianoro nella zona delle cascine, e da questo livello in giù abbiamo disboscato. In questo modo abbiamo ristabilito lo spazio dell’alpeggio».
Cosa avete fatto col legname?
«Lo abbiamo portato a valle e l’abbiamo fatto lavorare in una segheria a Biasca e poi abbiamo realizzato in scala reale una grande zattera».
Lei si occupa, in campo accademico, di edilizia popolare. Questo, però, è un progetto a parte.
«Ritengo che questo sia la mia opera più significativa. Mi sembra importante non soltanto per me ma in termini di interesse pubblico. Non sono a conoscenza di interventi di questo tipo altrove».
Cosa ha provato quando ha visto esposte ad Harvard, in America, le fotografie che documentano il suo progetto?
«Mi ha fatto effetto il contrasto tra la realtà che questo lavoro esprime – la realtà dei contadini, la realtà delle cascine, della transumanza e della miseria – e la realtà di Harvard. Per me la soddisfazione non è certo personale, ma è anche legata alla consapevolezza di aver portato una realtà così umile in un contesto tanto prestigioso».