Società

L'attivista del suicidio che si è «esiliato» in Ticino

Emilio Coveri, condannato in Italia, ha aperto un'associazione a Lugano – Ecco di cosa si tratta
Emilio Coveri a Paradiso © CdT/ Chiara Zocchetti
Davide Illarietti
05.11.2023 17:00

Emilio Coveri è alla finestra di un ufficio nel centro di Paradiso, tra i palazzi pieni di altri uffici e altre finestre. È cieco, per venire in Ticino da Torino è stato accompagnato da un’autista, ma ugualmente stare alla finestra gli dà un senso di libertà. «Mi sembra di iniziare una nuova vita» dice.

La libertà è un valore fondamentale per questo 73.enne inarrestabile, «è alla base della mia storia di attivismo» afferma. Ma di recente ha rischiato di perderla e proprio per questo a metà ottobre è venuto una prima volta in Ticino. Poi è tornato altre volte, per sbrigare le pratiche e organizzare il trasloco della sua organizzazione. In una di queste occasioni lo abbiamo incontrato, poco prima dell’appuntamento con il notaio.

Coveri è fondatore e presidente di Exit Italia - da non confondere con la Exit svizzera, vedi articolo a fianco - una delle principali associazioni per il diritto al suicidio assistito nella vicina Penisola. A luglio è stato condannato dalla Corte d’appello di Catania a tre anni di reclusione con l’accusa di istigazione al suicidio. Appena uscito dal tribunale assieme al suo avvocato ha preso due decisioni: ricorrere in Cassazione e trasferire in Svizzera la sua associazione. Il ricorso è prendente, il trasloco a buon punto: entro gennaio la nuova associazione, con un nuovo nome, sarà pronta a partire.

Il turismo della morte

In un pomeriggio di fine ottobre Coveri è a Paradiso per firmare l’atto di nascita dell’associazione ticinese. Non è una fuga. Lui continua a vivere in Italia dove aspetta la sentenza di ultimo grado «fiducioso nel ribaltamento dell’ultimo verdetto». Ma nel frattempo assieme all’assemblea dei soci - Exit Italia ne conta 3.500 - a seguito di una regolare votazione ha deliberato di trasferire le attività sul Ceresio, per mettere al riparo l’associazione da possibili problemi in fuPe

Pentobarbital, il farmaco usato per il suicidio assistito (foto Zocchetti)
Pentobarbital, il farmaco usato per il suicidio assistito (foto Zocchetti)

«Il nostro scopo è da sempre quello di informare le persone sui loro diritti nel fine vita e anche sulle possibilità all’estero, che vuol dire principalmente in Svizzera, di ricorrere al suicidio assistito legale per porre fine alle loro sofferenze. Solo che ultimamente sembra che in Italia informare le persone possa costituire reato».

Per capire come sia possibile bisogna fare un salto indietro. Nel 2017 Exit Italia - che non va confusa con Exit Svizzera e con Exit Ticino - viene contattata da una donna catanese. Al telefono dall’ufficio di Torino risponde Coveri, che spiega alla donna quello che molti in Italia sanno, ma non tutti: il suicidio assistito non è legale nel Paese ma lo è in Svizzera, dove quattro associazioni private - tutte oltre Gottardo - accompagnano regolarmente alla morte cittadini stranieri entro gli stretti paletti della legge e al termine di un processo di verifica medico-psicologica. Ogni anno si stima che una cinquantina di italiani - quasi tutti malati terminali o con gravi patologie croniche - vengano in Svizzera per usufruire del suicidio assistito presso studi medici a Basilea, Berna e Zurigo.

«Un’esperienza toccante»

Francesco ha fatto «l’ultimo viaggio» una volta, da Torino a Zurigo, ed è tornato indietro. Non era ancora giunta la sua ora. Era giunta per suo cognato invece, malato di SLA. «Non voleva vivere su una sedia a rotelle, era una persona molto determinata» ricorda il 54.enne davanti a una birra in un bar nel centro di Paradiso. Ha accompagnato Coveri assieme a Marco Longhi, scrittore e membro di Exit Italia, a cui ha raccontato la sua storia poi raccolta in un libro («Il viaggio», editore Genesi, 2017). «È stata un’esperienza toccante e ho sentito il bisogno di condividerla» spiega.

Marco Longhi (foto Zocchetti)
Marco Longhi (foto Zocchetti)

Il viaggio in auto oltre Gottardo, il lago di Greisen, la casetta dell’associazione Dignitas a Küsnacht, dove li attendeva la pillola liberatrice. Francesco ricorda tutto come fosse ieri. «Liberazione è la parola giusta. Per mio cognato è stato un momento di gioia» ricorda.

Longhi annuisce e porge in dono una copia del suo libro. «Di fronte a una storia come questa la domanda principale che mi pongo è perché - dice - perché ancora oggi si deve essere costretti a espatriare per morire dignitosamente?».

I guai italiani

Coveri ha la sua spiegazione.

«Purtroppo nella nostra cultura il rapporto con la morte subisce ancora pesanti condizionamenti e la libertà delle persone di autodeterminarsi, anche in presenza di enormi sofferenze, è ostacolata in Italia da una legge che negli anni abbiamo tentato invano di cambiare molte volte» ricorda il 73enne. A seguito di una raccolta firme portata avanti da Exit Italia con il Partito Radicale, l’Unione atei e agnostici e altre associazioni, nel 2017 la vicina Penisola si è dotata per la prima volta di una legge che regolamenta l’eutanasia (in teoria oggi è legale in Italia «ma nei fatti nessuno lo sa» sottolinea Coveri). Dal testo però il suicidio assistito è stato stralciato.

Lo stesso anno la donna catanese si toglie la vita a Zurigo: è una delle tante, Coveri viene a sapere del decesso «solo l’anno successivo quando la persona deceduta non rinnova la tessera dell’associazione» spiega. «Succede sempre così ed è normale: il nostro compito, ripeto, si limita a informare». Questa volta però è diverso: i famigliari della donna denunciano l’associazione e la Procura di Catania incrimina Coveri. Dopo un’assoluzione in primo grado (il fatto non sussiste) la condanna a giugno scorso.

Telefono e conto bancario

Nell’ufficio della fiduciaria a Paradiso assieme a Coveri ci sono la moglie e altri tre soci di Exit che firmeranno per la costituzione della nuova associazione. Per legge, c’è anche un cittadino svizzero. «Siamo tutti molto affranti e preoccupati dalla sentenza italiana» spiega uno dei soci. «Se come ci auguriamo finirà con un’assoluzione, in futuro potremmo avere nuovi processi. Noi non infrangiamo nessuna legge, ma le accuse fanno male e difendersi in tribunale costa». L’associazione ha già speso 30 mila euro per il processo di Catania. Con una nuova sede già individuata, in Riva Caccia 13, un centralino che risponde a un numero svizzero, un conto bancario e uno statuto elvetico, Coveri e soci sperano di garantire un futuro al loro attivismo a partire da gennaio. «Non eseguiremo accompagnamenti in Ticino. Continueremo a fare quello che facciamo da quarant’anni, ossia informare. Ma qui per fortuna nessuno potrà accusarci di nulla». I 3.500 soci riceveranno nelle prossime settimane una tessera della nuova associazione svizzera (si chiama «Exit Svizzera italiana») ed Exit Italia verrà chiusa - almeno questa è l’intenzione.

«La battaglia per veder riconosciuto il diritto a una morte dignitosa nel nostro Paese è ancora lunga» assicura Coveri con aria un po’ affranta, mentre si avvia verso l’ufficio del notaio.

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