Lavoro e minimo salariale, il confronto rimane vivo
L’autunno, a livello politico, è tradizionalmente la stagione delle discussioni, spesso e volentieri accese. E quest’anno, fra rincari e aumenti dei premi di cassa malati, il dibattito è più vivo che mai. A La domenica del Corriere si è dunque parlato di un tema caldissimo: i salari. Il vicedirettore del CdT, Gianni Righinetti, ha affrontato la questione con Andrea Gehri (presidente della Camera di Commercio), Giangiorgio Gargantini (segretario cantonale di UNIA), Sergio Morisoli (capogruppo UDC in Gran Consiglio) e Fabrizio Sirica (co-presidente del PS). Righinetti parte con una provocazione: rivolgendosi a Gehri, chiede se il padronato è davvero «brutto e cattivo» come viene spesso dipinto dagli ambienti sindacali. «Il padronato serio esiste, e ha a cuore l’azienda e tutti i collaboratori», spiega. «Dire quindi che questa affermazione è un po’ piccata, se si riferisce all’intero settore. Nell’economia ci sono anche soggetti che magari sfuggono alle regole, ma siamo noi i primi come imprenditori che cerchiamo di farle rispettare». Poche pecore nere, quindi.
Ma che ne pensa il sindacato? «Noi facciamo due differenze», ribatte Gargantini. «Tra quello che succede in azienda e quello che, come sindacato, vediamo all’interno del partenariato sociale». È lì che il sindacalista traccia la linea: «Abbiamo sempre meno datori di lavoro e sempre più padroni». Con crescenti difficoltà, aggiunge Gargantini, a intavolare discussioni costruttive fra le parti. «In Ticino abbiamo associazioni padronali create per contestare dei contratti collettivi, per contrastare accordi presi sul piano nazionale», attacca il Segretario. Dalla politica, invece, come è visto il padronato? Comincia Morisoli: «Ha detto bene Gehri: anche fra i nostri associati c’è chi fa il furbo. C’è chi vive di espedienti. Però è vero che inizia a esserci uno scollamento fra i termini padrone e datore di lavoro. Chi si sente responsabilizzato ad avere la sua ditta sul territorio cercando di occupare il personale locale, sta diventando sempre più raro». Secondo Morisoli, il mondo dell’imprenditoria si sta assestando. Il deputato democentrista sottolinea però l’importanza di mantenere vivo uno dei valori fondanti della Svizzera, la ricerca del compromesso fra le parti «senza far intervenire lo Stato». «Dal mio punto di vista concordo con Gargantini: non si può generalizzare», rileva da parte sua Sirica. «Dobbiamo tuttavia analizzare il nostro mercato del lavoro, fatto sì di moltissime aziende familiari ma anche grandi aziende estere, che magari sfruttano vantaggi di posizione per produrre a basso costo». In generale, per Sirica, «il partenariato sociale è in crisi. Ne è la prova il record negativo di contratti normali di lavoro. È il fallimento del partenariato sociale e dei datori di lavoro».
Un tema scottante
Dal partenariato sociale si passa dunque al salario minimo, come suggerito dallo stesso Sirica. La nuova forchetta è entrata in vigore proprio ieri dopo l’okdel Parlamento. Ma il salario minimo, come aveva avvertito la Camera di Commercio durante la campagna per il voto, è davvero un problema? «Eravamo contrari perché più si regolamenta il mercato, e più è difficile fare impresa», ricorda Gehri. «E questo va ricondotto alla struttura economica del nostro cantone. Ci sono aziende che hanno montanti salariali che non possono aumentare a piacimento, perché la concorrenza estera sarebbe devastante. Con la conseguenza che determinate attività iniziano a essere delocalizzate. Delocalizzando non si va a colpire i salari bassi, ma anche i residenti». Una dinamica non condivisa da Gargantini: «La contesto. Secondo quanto abbiamo potuto osservare con l’introduzione del salario minimo, è il contrario. Delle cinque aziende che si erano fortemente opposte all’introduzione del salario minimo, nessuna ha lasciato il Ticino. A dimostrazione che si poteva fare. Anzi: oggi si delocalizza verso il Ticino, vedi la situazione Zalando. Un fatto, comunque, molto grave», e che mostra come il cantone sia indietro in termini salariali.
«Stiamo diventando la Romania della Svizzera», chiosa Gargantini. «Ci sono due livelli: il primo riguarda i segnali che dà l’introduzione in un Paese del salario minimo, il secondo è l’effetto che produce davvero», sottolinea invece Morisoli. «Quest’ultimo aspetto va a sostegno di pochi lavoratori in Ticino», perché gli altri sono regolati da contratti collettivi. «Il primo aspetto, invece, è più problematico: perché abbiamo già visto tentativi di voler allargare il salario minimo sul resto. Forzare troppo la mano, significa non attirare più le aziende».
«La domanda che voglio porvi è la seguente», ribatte Sirica. «Quanti soldi servono per vivere in maniera dignitosa? La risposta, sulla base delle prestazioni sociali, servono 4.076 franchi. Equivalgono a 22,50 franchi l’ora. Oggi, quindi, con questa forchetta di salario minimo, non rispettiamo la Costituzione, che dice che tutti devono avere un salario dignitoso. Questo è sfruttamento». «Dobbiamo ricordarci che più del 90% delle persone che beneficiano del salario minimo, non vive in Ticino», risponde Gehri. «Hanno comunque un grosso vantaggio».
E i frontalieri?
Frontalieri, dunque. Siamo arrivati a un punto di squilibrio nel mercato del lavoro? «Un terzo di lavoratori frontalieri in Ticino non risponde a nessuna logica sociale», spiega Gargantini. «Risponde solo a una pressione sui salari di quella parte di padronato che vuole sfruttare la situazione particolare del cantone». La pressione sui salari è una tendenza destinata a proseguire. A causa proprio della grande quota di frontalieri in Ticino, rileva Morisoli.
«Come si fa a far resistere un mercato dove potenzialmente ci sono 4 milioni di persone disposte a venire qui a prendere oltre 5.000 franchi al mese? Non è un mercato normale, è squilibrato, anche a causa di ciò che produciamo in Ticino». «Manca una regolamentazione», riprende Sirica. E per migliorare, bisogna «passare dalla contrattazione. Mettere degli argini, non ci sono altre strade». «Viviamo in un libero mercato», ricorda in conclusione Gehri. «Ci sono settori in cui senza frontalieri non possono neppure fornire una prestazione. Ma sono regolati da contratti collettivi, come ad esempio il ramo della costruzione». Per Gehri, comunque, è difficile cambiare questa pressione data la differenza (numerica e salariale) dell’Italia. In Ticino, infatti, si pagano salari che sono il triplo di quelli d’oltre confine.