Le città sono vive, lo sappiamo grazie alle api
Marco Moretti, biologo ticinese che oggi vive tra Zurigo e Bellinzona, apre la porta della «casa», così com’è chiamata affettuosamente la baracca dietro l’ingresso dell’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio (WSL) a Birmensdorf, nella campagna del canton Zurigo. «Doveva essere una costruzione provvisoria, e invece è qui da decine di anni ed è riuscita a resistere anche all’ultimo uragano. Ha spazzato via quasi tutto, ma la ‘casa’ resta sempre in piedi», esclama mentre apre un’altra porta a metà di un corridoio stretto. Sulla parete a sinistra, verso le finestre, sono ammucchiate ordinatamente decine e decine di scatole di cartone. Ognuna con una sigla e un numero: ‘An 020’, ‘Ta 057’, ‘Zu 179’... «Queste scatole contengono le provette con le ‘cannucce’ del nostro esperimento. Meglio tenerle ancora per un po’, magari qualcuno vuole fare ulteriori analisi o confutare la nostra ricerca», dice mentre prende la ‘Zu 057’. «Questa è di Zurigo, le altre sono di Parigi, Anversa in Belgio, Tartu in Estonia e Poznan, in Polonia». Dentro ognuna, decine di provette in vetro contenenti le cannucce provenienti dai vari «nidi per insetti» piazzati nelle cinque città del continente. In tutto, dodici «hotel per api» per ogni città, mentre a Zurigo ce n’erano 32. «Abbiamo individuato quattro specie di api comuni a tutti gli agglomerati e analizzato il polline che vi hanno depositato per il nutrimento delle larve che sarebbero nate dalle loro uova. La cosa che ci ha lasciato più sorpresi? Scoprire che anche una specie di ape selvatica molto selettiva nella scelta del cibo è riuscita a trovare sufficiente polline. Fino agli anni Novanta si pensava che le città fossero dei ‘buchi neri’ per la biodiversità, ma lentamente ci si rende conto che non è più così».
Nel piccolo locale pieno di scatole entra Joan Casanelles Abella, che insieme a Marco Moretti ha condotto la ricerca. Ventinove anni, di Barcellona, si esprime in un italiano molto buono. «Ma qui di solito comunichiamo in inglese». Con un dottorato conseguito a Zurigo, studia in Svizzera da quattro anni la biodiversità, in particolare quella delle api negli ambienti urbani. «Mi interessa capire come gli animali e le piante si adattano in questo nuovo ambiente», spiega mentre mostra alcuni campioni al microscopio.
A livello europeo, l’80% della popolazione vive oggi in città, mentre a livello mondiale la quota è del 50%, «ed è una tendenza destinata a continuare» prosegue Moretti, sottolineando che questi ecosistemi si espanderanno sempre di più. Da qui l’importanza di capire come vi si adatteranno queste specie. «C’è addirittura un’evoluzione delle specie che, arrivate nelle città, cominciano a comportarsi in maniera diversa».
«Il nostro studio verteva sulla comprensione della dieta delle api. Di cosa si nutrono? Di quale polline necessitano le larve per il loro sviluppo? Ecco, queste erano alcune domande che ci siamo posti, alla base della ricerca». In Svizzera ci sono circa 600 specie di api selvatiche, solitarie. «Solitarie nel senso che, rispetto a quelle domestiche a cui siamo più abituati a pensare, non formano una colonia e, di conseguenza, non hanno alveari nei quali gruppi di api sono ‘specializzate’, per così dire, nello svolgimento di determinate funzioni». In questo caso, ogni ape femmina depone una serie di uova all’interno di una cannuccia contenuta all’interno di queste decine di «hotel per api» installate dai ricercatori. «Conoscere i loro gusti può dare indicazioni ai gestori dei parchi pubblici. Basti pensare quanto può essere banale un accorgimento sulla scelta delle piante. Scegliendo quelle giuste, è possibile dare una mano e favorire le specie presenti in ogni città», aggiunge il ricercatore del WSL. «Purtroppo ci capita di vedere spesso dei fiori decorativi, diciamo pure ‘inutili’ perché saranno anche belli da vedere ma non forniscono polline e, quindi, non favoriscono lo sviluppo dell’ecosistema. Ed è un peccato, perché le opzioni, a parità di estetica, sono davvero tante». Tante almeno quante le specie di api selvatiche individuate dai ricercatori: in 15 anni, solo a Zurigo, Moretti dice ne siano state trovate almeno 150, 600 in Svizzera. «Dalle interazioni tra le specie nascono i processi ecosistemici e anche i servizi di cui l’uomo può beneficiare – continua Moretti –. Tutti sanno che, grazie all’impollinazione, si ottengono frutta, verdura: la nostra sopravvivenza, in fin dei conti, è legata proprio al panorama delle specie di insetti che mantengono sano e fanno prosperare l’ambiente in cui viviamo».
Il risultato che ha sorpreso di più i ricercatori è stato quello di vedere una specie molto «specialistica» – la chelostoma florisomne, che si nutre di polline di alcune specie di ranuncolo – resistere e vivere ancora in città. «È la più schizzinosa delle quattro che abbiamo scelto per il nostro sondaggio. Ed eravamo convinti del fatto che non avesse posto in un contesto urbano, visto che le condizioni sono molto difficili. E invece, ci sbagliavamo. D’altra parte, all’opposto – prosegue lo scienziato ticinese –, vedere come una specie generalista riesca a sfruttare fino a cinquanta specie diverse di piante per il proprio fabbisogno. Avere una dieta così variata, poi, permette di compensare la tossicità di alcuni pollini: quelli indigesti, combinati con pollini di altre varietà, diventano più digeribili». Insomma, una dieta più varia fa bene non solo alla salute degli esseri umani, ma anche a quella dei nostri imenotteri. Lo sa bene la ‘onnivora’ hylaeus communis, i cui ricercatori ne hanno pure constatato l’adattamento della dieta da pollini erbacei a pollini di alberi, a seconda della densità urbana. Le altre specie di api selvatiche prese in considerazione dall’analisi sono state l’osmia cornuta e l’osmia bicornis, che rispetto alla communis hanno gusti un po’ più difficili: anche loro hanno visitato diverse piante, ma la maggior parte del nettare nei loro nidi proveniva solo da poche. I pollini prediletti erano di cespugli e alberi.
In un angolo della stanza c’è anche uno di questi ‘alberghi per insetti’. «All’interno di ognuno di questi tubicini, la femmina deposita le uova, costruendo delle cellette», dice Moretti estraendo una cannuccia dal grande tubo di circa dieci centimetri di diametro. «Durante il viaggio che l’insetto compie mentre deposita le uova, possono infiltrarsi dei parassiti. Attorno a settembre-ottobre, ritiriamo queste casette. Portiamo tutto in laboratorio e apriamo tutti questi tubicini. Li sottoponiamo a un inverno accorciato, lasciando poi ‘sfarfallare’ le larve che nel frattempo si sono sviluppate. A questo punto non ci resta che determinare la specie e prelevare il polline, da cui determiniamo di quali piante si sono nutrite le larve», osserva Moretti entrando nel dettaglio del metodo di lavoro escogitato dall’istituto in occasione di questo particolare studio.
Agli occhi dei profani, potrebbe risultare poco chiaro il meccanismo relativo all’uscita degli insetti da queste minuscole fessure, delle cannucce lunghe venti centrimetri e dal diametro appena sufficiente per il corpo dell’imenottero che lo ha ospitato fino dallo stadio di coccone. «La femmina, sul fondo del tubicino, deposita innanzitutto uova di femmina – premette l’esperto –. A metà lunghezza, invece, depositerà uova di maschi. Probabilmente ci sono dei segnali ormonali che fan sì che tutti siano pronti a uscire nello stesso momento. Una volta uscito il primo, quello più all’interno dovrà sfondare la prima ‘parete’ della cella e così via, fino all’ultimo. È possibile che i maschi si accalchino all’esterno in attesa che le femmine escano. Quando questo avviene, l’accoppiamento può già avvenire. È per questo motivo che le femmine escono dopo i maschi. Perché altrimenti, volerebbero via e i maschi non le troverebbero più...». C’è poi il problema dei detriti causati dalle uova che non si sono sviluppate o, peggio, dai parassiti che hanno assorbito le riserve e che ‘ingombrano’ il passaggio. Moretti prende un altro foglio su cui è stampato un ingrandimento di una delle cannucce interessate da questo tipo di infestazione: «Qui si crea un tappo – spiega –. Dove ci sono questi garbugli, beh, sappiamo che sono causati dalle uova dei parassiti. Si sono appropriati della celletta, hanno ‘fatto fuori’ la larva e hanno mangiato tutte le riserve. L’ape che arriva da questa parte deve riuscire a sfondare questo detrito. Se non riesce, muore. Ma la natura funziona così. Chi muore, lo fa perché non ce l’ha fatta e non era in grado di superare le difficoltà. È l’evoluzione», sottolinea. «Ed è per quello che abbiamo un mondo praticamente quasi perfetto. Perché chi non ce la fa non vive».
Lo scienziato apre una scatola appoggiata su una delle scrivanie del laboratorio. Sembra una scatola di cioccolatini, ma al suo interno c’è una raccolta di esemplari di api. Sono una buona parte delle api selvatiche osservate a Zurigo. Alcune hanno colori molto fantasiosi, con corpi arancioni a azzurri. Altre sono minuscole e sembrano più formiche alate che vere e proprie api. «Tutte queste si trovano in città. La variabilità delle dimensioni è notevole. Passiamo dalla Xilopa, la più grande – dice indicando un insetto particolarmente grande, gigantesco rispetto agli altri, proprio sull’angolo della scatola –, a quelli più piccolini», sottolinea scorrendo il dito a distanza di sicurezza dai preziosi campioni. Sotto gli spilli, delle piccole etichette indicano il nome della specie. «Fino ai bombi, che conosciamo bene e che impollinano parecchi fiori». Con questo tipo di ricerche, conclude Marco Moretti, «sfatiamo anche il mito che vede le città come povere o, addirittura, dei ‘buchi neri’ nei quali le specie spariscono e poi non si trovano più».