L’eredità linguistica di Carlo Salvioni
Con quale spirito guardare all’opera di Carlo Salvioni, l’insigne glottologo ticinese di cui quest’anno ricorrono i cento anni della morte? Al di là dei testi e saggi che ci ha consegnato – ora fruibili negli Scritti linguistici pubblicati nel 2008 dalle Edizioni dello Stato del Cantone Ticino – il metodo e l’approccio dello studioso è altrettanto imprescindibile rispetto ai suoi lavori, molti dei quali tuttora validi. Salvioni può insegnare a cambiare idea; avesse avuto sottomano il detto raccolto a Camignolo per il Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana – «falá l’è da óm, corénges l’è da galantóm» – l’avrebbe potuto sottoscrivere: a cominciare dall’episodio che l’ha spinto ad abbracciare la scienza linguistica a scapito di quella medica, passando per il rigoroso apprendistato sotto la guida del suo maestro (e iniziatore degli studi scientifici dei dialetti in Italia) Graziadio Isaia Ascoli, fino a giungere ai suoi primi lavori. Se poi ci si immerge tra le carte manoscritte, ci si imbatte in fogli, foglietti, scampoli di stampati, sui quali annotava pensieri, forme dialettali, promemoria inerenti gli studi che andava intraprendendo.
Una vita austeramente operosa
Un assiduo lavoro, «un’esistenza austeramente operosa», come l’ha descritta l’amico italianista Vittorio Cian; un esempio è conservato presso il Centro di dialettologia e di etnografia: si tratta di un indovinello riportato sul retro di un foglietto di calendario (con la data di domenica 2 agosto 1885) che recita «camp bianch, seménza négra, dü che ara, e trii che pèna», la cui soluzione è l’atto dello scrivere. Salvioni insomma non insegna, mostra. Illustri linguisti, contemporanei a Salvioni e a noi, hanno notato come di fatto nella sua opera siano assenti contributi di metodologia (fa eccezione il discorso inaugurale pronunciato di fronte alla Regia Accademia Scientifico-Letteraria di Milano il 4 novembre 1905 Di qualche criterio dell’indagine etimologica); i suoi scritti sono tutto un esempio. La sua bibliografia tra brevi articoli e altri più estesi (Salvioni non scrisse mai un «libro» come lo si intende, eccettuata la sua Fonetica e morfologia del dialetto milanese pubblicata postuma da Dante Isella nel 1975) conta oltre trecento saggi. Sin dai titoli si intravvede come il linguista si interessasse di problemi concreti della lingua: Nomi locali del Cantone Ticino derivati dal nome delle piante (1889), Il “Sermone” di Pietro da Barsegape riveduto sul codice e nuovamente edito (1891), La gita di un glottologo in Val Colla (1891), Orico non Urico (1894), L’influenza della tonica nella determinazione dell’atona finale in qualche parlata della valle del Ticino (1894). Gran parte dei saggi di Salvioni sono inoltre apparsi su riviste specializzate, quindi di difficile reperimento; oltre al ticinese «Bollettino Storico della Svizzera italiana», si possono menzionare l’ Archivio glottologico italiano» e la «Zeitschrift für romanische Philologie». Queste circostanze quasi a significare che lo studioso non si azzardasse a mettere una conclusione alla sua ricerca scientifica; come scrive Romano Broggini negli Scritti linguistici: «Salvioni dimostra la piu rigorosa prudenza scientifica: non vuole assolutamente generalizzare prima di aver esaurito le ricerche particolari».
La necessità di ricordare
Occupandosi dei più disparati ambiti della linguistica (etimologia, toponomastica, fonetica, sintassi, morfologia), Salvioni si è spesso appoggiato a valenti informatori locali che gli hanno fornito materiali relativi ai dialetti dei quali si stava interessando; un metodo che utilizzerà proficuamente quando inizierà le inchieste per il Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana, opera da lui fortemente voluta, quasi un testamento lasciato alle generazioni successive. Come si legge nella lettera scritta a Rinaldo Simen nel 1904 per sostenere la necessità di iniziare i lavori di raccolta in vista della costituzione del VSI: «Ogni vegliardo che scende nella tomba vi trascina seco delle parcelle d’un tesoro che purtroppo non rivedranno la luce più mai. Sarebbe vana e folle la speranza di arrestare un tal movimento. Ma una follia sarebbe anche il rimanere impassibili davanti al dissolvimento di un retaggio trasmessoci come cosa sacra dalle passate generazioni. Se molta parte del patrimonio dialettale nostro è fatalmente votata a perire, facciamo almeno sì che il ricordo non ne perisca, raccogliamo, salviamo, per quel museo d’ideale ch’è il cuore del cittadino, quanto ancora si può raccogliere e salvare». L’opera di Salvioni non ci lascia in eredità unicamente una copiosa messe di dati ordinati e sistematizzati, ma – come ha scritto Michele Loporcaro nell’introduzione agli Scritti linguistici – «essa lascia anche lavori in cui dall’analisi puntuale si tirano le somme, pervenendo a conclusioni che tuttora fanno testo».
Un medico mancato: a Lipsia la sua «conversione» agli studi glottologici
dopo corsi di medicina abbandonati per un’avversione alla sala operatoria
Carlo Salvioni nasce a Bellinzona nel 1858, figlio di Martina Borsa e Carlo, negoziante nella capitale ticinese. Dopo studi liceali intermittenti, durante i quali conosce tra gli altri l’anarchico Bakunin e si avvicina alle idee libertarie, nel 1875 si reca a Basilea e poi dal 1876 si trasferisce a Lipsia per studiare medicina. Sono anni in cui il giovane Salvioni si espone pubblicamente, scrivendo su giornali e riviste di area socialista e internazionalista. L’avversione per la sala operatoria lo convince però ad abbandonare i corsi di medicina, per passare nel 1878 alla facoltà di lettere e abbracciare gli studi glottologici. Lì conosce il grande glottologo italiano Graziadio Isaia Ascoli che lo porta a focalizzare l’attenzione sulla dialettologia italiana. La sua tesi di laurea, dal titolo Fonetica del dialetto moderno della città di Milano, è pubblicata nel 1884 e rappresenta il suo primo importante contributo alla ricerca sui dialetti, soprattutto lombardi, piemontesi e veneti, ma anche meridionali e insulari. Conseguito il dottorato nel 1883, due anni dopo Carlo Salvioni ottiene la libera docenza a Torino ed è poi professore ordinario all’Università degli Studi di Pavia, fino al 1902. In quell’anno, dopo aver diretto la prestigiosa rivista «Archivio glottologico italiano», diventa il successore dell’Ascoli all’Accademia scientifico-letteraria di Milano. Nel 1889 diventa anche senatore del Regno d’Italia. Nel 1904 inizia a progettare il Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana, che prende ufficialmente avvio nel 1907 sotto la sua direzione. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, la sua vita privata è segnata da due gravissimi lutti. I suoi due figli Ferruccio ed Enrico, infatti, muoiono entrambi nell conflitto, a distanza di qualche mese, dopo essersi arruolati nell’esercito italiano come volontari. Nellautunno del 1920 mentre attende alla preparazione di un libro in memoria dei figli si spegne d’improvviso all’età di 62 anni.