«L'Homo sapiens, una specie invasiva, anche sul clima»

Che cosa significa “evoluzione”? Inizierà da qui la nostra intervista a Jean-Jacques Hublin, un’autentica istituzione della paleoantropologia. Nella chiacchierata abbiamo però parlato della società attuale e di come lo studio delle origini della specie ci permetta di osservarci e di osservare alcuni dei problemi attuali. Un’introspezione.
Professore, che cosa significa evoluzione?
«Io sono un paleoantropologo, per cui parlo di evoluzione in termini biologici. Contrariamente a ciò che gli uomini hanno a lungo creduto, le specie viventi non sono immutabili. Sono anzi poche quelle specie che - si pensa - non siano cambiate o siano cambiate poco. Tutte cambiano nel tempo. Per quanto riguarda gli ominidi - espressione che usiamo per descrivere la famiglia di mammiferi primati - si aggiunge un comportamento complesso, che è quello della cultura materiale, della complessità sociale. Ma anche questi fattori evolvono nel tempo. Ed è importante notare che evoluzione biologica ed evoluzione comportamentale-culturale non sono indipendenti l’una dall’altra, sono anzi due dimensioni che interagiscono tra loro continuamente nel corso del tempo».
E allora, essendo l’evoluzione per definizione dinamica, che cosa significa appartenere alla specie umana?
«Storicamente, la società umana si è sempre preoccupata di separare l’“umano” dal “non umano”. Fino al 19. secolo, anche gli scienziati parlavano di un regno umano separato dal regno animale. La scoperta dell’evoluzione ha cancellato questa nozione e ha affermato che la specie umana si radica nel regno animale. La scienza ha a lungo avuto la tentazione di trovare una specie di punto di rottura al di là del quale gli uomini sono diventati quello che sono oggi. Per alcuni si è avuto con l’apparizione degli Homo sapiens, per altri prima ancora. Ma in ognuno di questi casi, si è poi calcato il tratto, umanizzando al massimo quanto arrivato dopo quel punto di rottura e disumanizzando ciò che c’era prima. Se si calcava la mano era per accentuare questa nozione di un cambiamento brutale».
Il dibattito sull’Uomo di Neanderthal mi sembra esemplare, in questo senso.
«Se riprendiamo il concetto di fossato, di linea che separava l’umano dal non umano, quando è stato scoperto e descritto per la prima volta, l’Uomo di Neanderthal era dall’altra parte del fossato rispetto all’Homo sapiens, al punto che veniva descritto come una specie di scimmia. Più recentemente, invece, lo abbiamo tirato dalla nostra parte del fossato, e allora vorremmo fosse esattamente come gli uomini attuali. Posizioni opposte, insomma, ma entrambe esagerate. La realtà è più complessa di così, e un fossato non esiste».
Da dove nasce il bisogno di trovare questo punto di rottura?
«Le specie di ominidi che c’erano prima di noi, a fianco a noi, avevano alcune caratteristiche che consideriamo come umane, e altre che non esistono negli uomini attuali. Ma questa è una nozione difficile da accettare, perché nella natura attuale gli uomini sono facili da identificare rispetto a tutto ciò che li circonda. Nel passato, queste differenze non erano altrettanto chiare. E poi c’è un’altra dimensione del dibattito, più religiosa, ideologica, politica e filosofica: non amiamo troppo l’idea che alcune creature possano essere meno umane di altre. Eppure le differenze tra gli uomini esistono; l’uguaglianza sta nei diritti, nello statuto umano. Tornando all’Uomo di Neanderthal, a un certo punto è subentrata quindi la volontà di renderlo completamente equivalente agli uomini attuali: il che non è altro che un’espressione paleontologica dell’inclusività».
I bambini faticano a credere che l’uomo sia parte del regno animale. Al contempo, nel linguaggio, utilizziamo alcuni termini tipici del mondo animale per descrivere i peggiori comportamenti dell’uomo (branchi, bestie...). Noi siamo animali, ma non ci riconosciamo tali. Perché?
«Siamo animali perché abbiamo una radice comune con i primati, che come noi sono mammiferi, vertebrati, eccetera. Per spiegarlo ai nostri bambini, allora, bisogna spiegare che il genoma di un coniglio e il genoma umano sono comuni al 70%: anche i conigli hanno due occhi, i peli, la pelle, un cuore che batte. Qualcosa del loro patrimonio genetico è anche nostro. Detto questo, all’interno del mondo animale, il fenomeno umano è molto particolare. L’evoluzione dell’uomo è particolare. Non è la prima specie vivente capace di modificare l’ambiente. Spesso si citano i castori o le termiti. Ma l’uomo ha modificato il suo ambiente a un livello mai raggiunto da nessun’altra specie, creando addirittura un ambiente artificiale. È una specie che si è adattata all’ambiente ma adattando l’ambiente a sé stessa. Conosciamo altre specie viventi - parliamo di batteri - che hanno modificato l’atmosfera terrestre. Parliamo di miliardi di anni fa. E poi è arrivato l’uomo, che ha modificato l’ambiente deliberatamente, in proporzioni inedite. Parliamo, insomma, di una specie capace di arrivare ovunque nel pianeta, che ha fatto e fa sparire tantissime altre specie differenti, che modifica atmosfera e clima: sì, è una specie animale molto particolare».
L’uomo può addirittura modificare l’ambiente al punto da arrivare alla propria estinzione?
«Potrebbe scoppiare domani una guerra nucleare, e la stessa potrebbe degenerare al punto da far sparire l’umanità, o parte di essa. Ma le paure che agitano il presente - le pandemie, le guerre, il clima - si iscrivono in una vecchia tendenza. Basti pensare alla Bibbia, alle tante possibili apocalissi. L’ipotesi della fine del mondo esiste da quando esistono i racconti, entra in una tendenza ciclica. Mia opinione: l’umanità sparirà, ma sarà tra miliardi di anni, quando il sole avrà consumato tutto l’idrogeno. Ma non credo l’umanità sparirà a breve».
Per quanto concerne il cambiamento climatico, guardare alle nostre origini può aiutarci a trovare un insegnamento?
«Bisogna capire che, più la società è complessa ed elaborata nella sua economia, più diventa sensibile anche ai più piccoli cambiamenti. Un cambiamento climatico ha effetti gravi sull’economia e sul modo di vivere. In epoche passate abbiamo già conosciuto cambiamenti climatici drammatici, i quali hanno anche ridotto la popolazione. Preferiremmo che nulla cambi, ma non è possibile. Questo, a differenza dei precedenti cambiamenti climatici, dovuti a fenomeni naturali, è provocato dall’uomo, è rapidissimo e destabilizzante rispetto all’ambiente artificiale da lui creato. Ci sono teorie secondo cui l’instabilità ambientale ha accelerato, in passato, l’evoluzione umana nella complessità dei propri comportamenti. Il che non equivale a dire che il cambiamento climatico è un fattore positivo».
Come lei ha già avuto modo di dire e di scrivere, l’Homo sapiens è una specie invasiva.
«Ho utilizzato questa espressione all’interno di un discorso sulla successione delle specie. Non si tratta di una sfilata, nella quale si susseguono le specie, non è una parata: questa è un’immagine completamente falsa . Oggi lo sappiamo. La questione è più complessa rispetto a un semplice disegno. In ogni epoca sono esistite, contemporaneamente sulla Terra, diverse specie di ominidi. Per noi è difficile da accettare, anche perché osserviamo il mondo con gli occhi del presente. E oggi c’è un’unica specie umana, anche piuttosto omogenea, una specie che ha rimpiazzato tutte le altre, che ha rotto un equilibrio, che si è spinta ovunque - presto, chissà, su altri pianeti -, e ovunque ha fatto sparire tutte le altre specie, e poi altre specie viventi, e infine si è impegnata nella trasformazione dell’ambiente».
Guardando all’Uomo di Neanderthal, a come si è estinto, ritroviamo qualcosa della società attuale? E magari un avvertimento?
«C’è un’intera letteratura sulla scomparsa dell’Uomo di Neanderthal. A lungo si è parlato del clima, di eruzioni, di molte possibilità. Ma la sola spiegazione possibile non riguarda l’Uomo di Neanderthal, bensì l’Homo sapiens, una specie invasiva, appunto. D’altronde, tutti gli ominidi sono scomparsi, di fronte alle forme moderne di Homo sapiens. Spesso quindi si è messo al centro del discorso il progresso tecnico, ma in realtà tutte le specie, a quel punto, erano già impegnate in una sorta di complessificazione dei loro comportamenti. Nell’Uomo di Neanderthal è stata osservata la crescita continua della taglia del cervello: avevano bisogno di un cervello più grande per fare cose più complicate. Quindi c’è dell’altro. Io uso spesso la figura delle casseruole del latte: se mettete a bollire il latte in varie casseruole, a un certo punto una di quelle deborderà e il liquido uscito farà spegnere tutte le altre. Ecco, quella casseruola siamo noi, è l’Homo sapiens. Non è solo una questione tecnica, ma sociale, di adattamento sociale attraverso reti di solidarietà molto estese. La solidarietà esisteva già in alcuni piccoli gruppi, ma non su una scala così estesa da diventare possibile anche nei confronti di individui che neppure si conoscono».
È l’empatia, insomma.
«Sì. Ma d’altronde se vuole sapere che cosa chiederei a un Uomo di Neanderthal - se potessi viaggiare nel tempo -, be’, gli chiederei quale genere di relazione ci fosse con i suoi cognati. Nelle società recenti, infatti, la solidarietà è andata oltre il proprio piccolo gruppo familiare, e questo ha fatto la differenza dal profilo evolutivo».
Parlava di cervelli sempre più grandi. L’Homo sapiens moderno delega questa tendenza all’intelligenza artificiale. Come si colloca questa invenzione nella storia dell’evoluzione?
«Una questione molto interessante. Perché uno dei tratti dell’evoluzione sta nell’esternalizzazione di molte funzioni biologiche: l’uso di utensili, la cottura degli alimenti, la locomozione; tutti modi per economizzare energia che poi si può investire proprio nel cervello, un organo che - nella sua crescita - consuma moltissimo. Noi, al contrario delle altre specie, a un momento preciso abbiamo capito che questa crescita costava troppa energia, e abbiamo trovato un modo per migliorare la qualità e la capacità del cervello, senza aumentarne la taglia. Un problema vitale. L’Homo sapiens ha iniziato a esternalizzare le proprie funzioni cognitive, la memoria - grazie ai segni, alla scrittura, ai sistemi di registrazione numerica -, fino ad arrivare all’intelligenza artificiale. Non si tratta solo della nostra memoria, ma della capacità di calcolo, di ragionamento, di previsione. È l’ambizione di esternalizzare tutte le nostre funzioni cognitive del nostro cervello in artefatti esterni al nostro corpo».