L'incognita Trump su Gaza
Il 20 gennaio è la data. Donald Trump giurerà come presidente degli USA e scadrà l’ultimatum che lo stesso Trump ha avanzato ad Hamas per liberare gli ostaggi, pena il «pagamento di un prezzo altissimo». Difficile immaginare se questo ultimatum possa essere rispettato. Nelle ultime settimane, i segnali che giungono dal tavolo negoziale sono discordanti. In alcuni giorni sembra che le distanze tra le parti siano irrisorie, in altri molto lontane. I punti di frizione sono sempre gli stessi: Israele insiste sulla presenza, anche se temporanea, lungo il corridoio Philadelphia, il confine tra Gaza ed Egitto da dove, secondo Tel Aviv, entrano armi a Gaza. Altro punto di disaccordo è la presenza israeliana sul corridoio Netzarim, l’area che taglia orizzontalmente Gaza. Qui l’esercito israeliano (IDF) ha costruito strutture usate per il controllo dell’area, da dove dovrebbero passare i gazawi che intendono tornare a nord. Corridoio al centro di scontri con miliziani.
L’IDF continua nella sua azione a nord della Striscia, dove ritiene ci sia il grosso delle truppe di Hamas. Forse non a torto: negli ultimi giorni almeno otto razzi sono stati lanciati da quell’area verso israele. A dimostrazione che Hamas è ferito ma non morto. La coincidenza dei lanci di razzi, situazione che non accadeva da tempo, con i giorni nevralgici dei colloqui per tregua e liberazione degli ostaggi, fa pensare alla volontà di Hamas di dimostrare di poter ancora tenere botta e quindi alzare il prezzo. Dopotutto, il gruppo di Gaza ha comunicato di non poter consegnare la lista degli ostaggi da rilasciare senza l’inizio del cessate il fuoco. È chiaro che, in una contrattazione, ogni parte punta ad aumentare la posta per poi ottenere una soluzione ridotta ma accettabile. Hamas e Israele si accusano a vicenda di voler sabotare i colloqui; e i mediatori, Egitto e Qatar, accusano a loro volta Israele di boicottare il tavolo. Nella partita di Gaza si è inserita prepotentemente l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Il governo di Ramallah che prima ha combattuto Hamas, poi ha siglato un accordo per un governo di unità nazionale e azioni comuni (entrambi mai realizzati), da oltre 20 giorni conduce un’operazione di polizia a Jenin contro miliziani del gruppo di Gaza e di altre formazioni eversive. Questo ha scatenato le proteste di Jihad Islamico e Hamas, che hanno chiamato alla rivolta contro l’ANP. La cui idea è dimostrare, principalmente agli americani e a Trump di poter governare la Cisgiordania e Gaza. Idea però respinta dal premier israeliano Benjamin Netanyahu.
Quest’ultimo sta guardando a Est più che a Sud. L’IDF continua a gestire il confine con la Siria con raid su obiettivi militari, sostiene, in chiave difensiva. Chi governa la nuova Siria sostiene di non avere problemi con Israele, facendo intendere la possibilità di nuovi orizzonti di pace. Che restano aperti anche con l’Arabia Saudita e questo potrebbe essere un “regalo” di -oppure a - Donald Trump.
Il grande sconfitto
Come pure l’attacco all’Iran. Teheran è lo sconfitto eccellente di tutta la situazione. Ha perso la Siria, ha perso in Libano, in Cisgiordania e a Gaza. I ribelli sciiti filo iraniani dell’Iraq, che hanno attaccato più volte Israele, hanno annunciato lo stop ai raid. Non è così per gli Houthi yemeniti. È questo il nuovo fronte nel quale Israele (ma non solo) ha già dimostrato la sua forza militare, colpendo posizioni in Yemen. Lo stesso hanno fatto, insieme, americani e inglesi, i quali hanno condotto attacchi sia navali sia aerei in risposta ai missili balistici lanciati quasi ogni notte, nella scorsa settimana, verso Tel Aviv e Gerusalemme, e intercettati anche grazie al sistema antimissile americano Thaad, dispiegato nel Negev. Il Mossad sta suggerendo di attaccare pesantemente l’Iran invece dello Yemen, per mettere la parola fine alla situazione. È probabile che Netanyahu si lasci convincere: dopotutto è un'idea che ha accarezzato da tempo; ha più volte lanciato messaggi in tal senso, anche in video diretti ai cittadini iraniani. In questo senso, è più probabile che, anche l’attacco all’Iran, sia un regalo a Trump, la cui posizione verso il regime degli ayatollah è nota: è stato lui a rompere il trattato nucleare e a porre sanzioni. L'attacco quindi potrebbe avvenire dopo il giuramento.
Con Trump, Netanyahu ha certamente le spalle più coperte e si sentirà con le mani più libere. Un atteggiamento che gli può tornare utile non soltanto dal punto di vista militare, ma anche politico: sia nelle relazioni in medio oriente, sia con le istituzioni internazionali. La moral suasion americana, la sua pressione, infatti, possono tornare utili soprattutto con le Nazioni Unite, oppure con organizzazioni tipo la Corte penale internazionale, che ha inviato i mandati di arresto contro Netanyahu e l’ex ministro Yoav Gallant. Istituzioni che Israele sente come nemiche. L’imprevedibilità di Trump, il suo stretto rapporto con il premier israeliano, la convergenza ideologica e di interessi su diversi punti, possono sicuramente essere i cardini intorno ai quali girerà la storia, soprattutto in Medio Oriente nei prossimi anni. Gennaio è alle porte e può rappresentare un punto di svolta. In un senso o nell’altro. Con la speranza che, in ogni caso, finiscano sia i drammi degli ostaggi israeliani sia quelli dei civili a Gaza.