La ricerca

L'infanzia rubata al von Mentlen: «Era l'anticamera dell'inferno»

Un approfondito studio, frutto della collaborazione fra l’istituto bellinzonese e l’Università di Ginevra, fa riemergere un passato di abusi al centro per minori fra gli anni Trenta e Sessanta - Dolorose testimonianze raccontano le privazioni e la reclusione subite in tenera età
Giona Carcano
02.10.2024 06:00

Dagli archivi dell’istituto von Mentlen di Bellinzona emerge un passato oscuro. Un passato fatto di violenze fisiche e verbali, abusi, soprusi. È quello delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi che hanno soggiornato loro malgrado nella struttura fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta. In quel luogo - oggi un’importante e riconosciuta realtà educativa per minorenni - per lungo tempo si è sviluppata una quotidianità fatta di privazioni, di totale mancanza di affetto, di gioventù calpestata. Erano i cosiddetti «figli di nessuno» a subire le violenze peggiori. Figli di ragazze madri, di famiglie numerose e poverissime, di nomadi, ma anche trovatelli, orfani. Tutti accomunati da un destino infame: essere reclusi fra quelle mura e subire maltrattamenti quasi ogni giorno, nell’indifferenza del mondo esterno e, soprattutto, dello Stato.

Il cortile e il muro

Oggi questo triste passato dell’istituto - comune a quello di molti altri centri svizzeri per minori - viene a galla in tutta la sua drammatica potenza grazie a un approfondito lavoro di ricerca svolto su richiesta dello stesso istituto e affidato a Marco Nardone, ricercatore presso l’Università di Ginevra. «Bisogna portare alla luce queste sofferenze!»; i collocamenti coatti all’istituto von Mentlen di Bellinzona (1932-1962) è il titolo dello studio che verrà presentato domani a Bellinzona (vedi articolo a lato). Uno studio che racchiude dodici testimonianze di donne e uomini che hanno vissuto in prima persona le violenze e le privazioni al von Mentlen. Hanno tutti un nome, un volto, un passato e un presente e hanno accettato di sottoporsi a un esercizio difficilissimo: raccontare ciò che hanno vissuto, dunque rivivere quei momenti, mettendosi a nudo. «Magari su 100 bambini, 50 ce l’hanno fatta a superare un po’ come me, anche se ci si tira dietro delle zavorre, però altri invece o sono morti prima o si sono suicidati». È Tamara P. che parla in una delle interviste e che dà la dimensione del macigno che l’ha schiacciata per tutta la vita. Del resto, come spiega lo stesso autore della ricerca, «il peso del collocamento e della vita dopo di esso poteva diventare insopportabile, come ad un certo punto è sembrato a Letizia F. e Simone T. Quest’ultimo era maggiorenne da poco quando è uscito dai vari istituti in cui è stato internato, senza lavoro, senza un posto dove andare e, alla fine, ha tentato il suicidio. Dal canto suo Alessio V. ha dovuto ricorrere a un percorso di psicoterapia per affrontare le difficoltà sorte dopo il collocamento». Ancora Simone T., in un altro passaggio, descrive ciò che era il ricovero von Mentlen per la gioventù abbandonata: «Il von Mentlen, come posso definire? Per me era l’anticamera dell’inferno. Non conosco altri aggettivi». Un inferno circondato da mura, come racconta Monica B. «C’era un grande cortile, ma tutto in giro era muro, non si vedeva niente». E Tamara P. riprende: «Nel cortile c’era una ramina enorme, dove tu non potevi proprio scappare, perché lì era poi tutto chiuso, cancelli. Io l’ho sempre considerato una prigione».

Le tante colpe

Per capire fino in fondo questo oscuro passato, le botte e gli abusi subiti dai bambini reclusi lì dentro, è però necessario concentrarsi sulla società svizzera e ticinese del tempo. Nardone innanzitutto riflette su chi gestiva il von Mentlen in quegli anni. Erano le suore della congregazione cattolica della Santa Croce di Menzingen, «rigide guardiane di una società intollerante e ostile verso tutto ciò che era fuori dalla norma». È proprio questa la chiave di volta per capire il contesto storico in cui si intrecciano i racconti dei protagonisti e perché sono stati internati in istituto. Al di là delle leggi e delle pratiche del tempo, spiega infatti Nardone, «nel contesto storico intorno alla metà del XX secolo la diversità era poco accettata e vi era una forte pressione verso l’omogeneità. I valori morali erano fissati in rigide norme sociali. La trasgressione e la devianza erano punite con sanzioni relativamente pesanti. Le persone collocate erano discriminate perché le loro famiglie (e di conseguenza anche loro stesse) erano considerate devianti rispetto alle norme morali e sociali in vigore in quegli anni». Era dunque un problema di società più che di rigidità educativa delle suore che gestivano l’istituto. Interessante, a questo proposito, anche la considerazione che fa il Consiglio di fondazione del von Mentlen nella prefazione e che tocca gli aspetti educativi. «In passato, e fino alla metà del secolo scorso, il bambino veniva considerato come una creatura incompleta e senza diritti riconosciuti. La punizione era l’elemento fondante del processo educativo. Quello che oggi viene considerato un maltrattamento era invece considerato un intervento necessario. L’uso della violenza era quindi giustificato e presente all’interno della famiglia, della scuola e nelle istituzioni per l’infanzia, sia private che pubbliche. Ma dalla presente ricerca, come confermato da altre ricerche, emerge purtroppo che si sono superati i limiti come, per esempio, gli abusi sessuali e forme di violenza esagerata».

Senza amore

A questo proposito Roberto B. dice: «Mi ricordo che ai primi tempi che ero giù piangevo sempre. E più piangevi e più prendevi botte». A rubare l’infanzia a questi bambini sono state quindi le suore, ma anche, in senso più allargato, lo Stato e la società tutta. Perché la reclusione, riprende Nardone, era sia fisica che sociale. «Più o meno tutto quello che succedeva all’interno dell’istituto restava all’interno dell’istituto. Non vi era nessun tipo di sorveglianza dall’esterno, né privata né statale. Ciò lasciava un grande margine di manovra alle suore responsabili della gestione dell’infanzia». I bambini diventavano quindi numeri. E quando sei un numero, non sei più niente. È un lacerante passaggio, raccontato da Emma V., a racchiudere tutto questo. E a riassumere l’essenza stessa della terribile esperienza al von Mentlen in quegli anni bui. «Per me l’enorme cosa che è mancata è l’affetto. Cioè l’affetto non esisteva e questo è brutto, eh. [...] Le suore erano dure, rigide, distanti, staccate, se non obbedivi ti arrivavano anche delle punizioni. [...] Erano proprio (sbatte il pugno sul tavolo, n.d.a.) aguzzine, eh».

«Siamo convinti che conoscere il passato significa capire dove siamo oggi». Vito Lo Russo, direttore del von Mentlen, ci spiega il motivo che ha spinto l’istituto ad aprire i suoi archivi per una ricerca che ha lasciato nello stesso Consiglio di fondazione «un senso di smarrimento e di incredulità». Domani, presso il CEM von Mentlen di Bellinzona, dalle 14 alle 16 si terrà la presentazione aperta al pubblico dello studio di Marco Nardone edito dall’Università di Ginevra. Un momento delicato per chi, oggi, dirige una struttura riconosciuta e apprezzata in tutto il cantone. «Lo scopo della ricerca non è quello di trovare dei colpevoli: i tempi sono completamente diversi, la società è fortunatamente cambiata», riprende Lo Russo. «Tuttavia ci sembrava importante scoprire cos’è stato il nostro passato, in particolare dopo la pubblicazione del libro ‘‘Il mio nome era 125’’ di Matteo Beltrami, il cui padre era stato ospitato al von Mentlen negli anni Cinquanta. È da lì che è partito tutto. Non abbiamo voluto mettere becco nella ricerca proprio per evitare di influenzare l’autore». Tutto il dolore emerso ha avuto un impatto fortissimo all’interno dell’istituto. «Lavoro al centro da diversi anni, non ho mai pensato a maltrattamenti. Perché eravamo concentrati sul presente, a fare del nostro meglio per aiutare chi è collocato nella nostra struttura. Fa male venire a conoscenza di queste cose», racconta ancora Lo Russo. Oggi, come detto, la situazione è profondamente diversa. La società è cambiata, l’infanzia è protetta. «Nel nostro centro non ci sono più muri e cancelli», riprende il direttore. «A livello di accoglienza ed educazione, il sistema funziona bene. Tuttavia è il sistema giuridico a dover progredire: penso in particolare alla riforma delle Autorità di protezione, che aspettiamo da anni. Noi restiamo sotto pressione, in particolare per i problemi incontrati da un numero crescente di giovani dopo la COVID. Se vogliamo mantenere alta la qualità, dobbiamo essere aiutati». Il difficile percorso fatto dal von Mentlen è simile a quello di molti altri istituti di questo tipo in Svizzera. Altre ricerche, negli ultimi anni, hanno portato alla luce abusi legati ai collocamenti coatti. Nel 2010 la consigliera federale Eveline Widmer-Schlumpf si è scusata in nome del Consiglio federale per le gravi sofferenze causate alle persone che hanno subito un internamento amministrativo. Nel 2013 anche Simonetta Sommaruga ha porto le sue scuse a tutte le vittime di misure coercitive a scopo assistenziale e di collocamenti extrafamiliari. Ciò ha avviato un processo di analisi, tuttora in corso, di questo difficile capitolo della storia sociale svizzera.