L'infanzia rubata al von Mentlen: «Era l'anticamera dell'inferno»

Dagli archivi dell’istituto von Mentlen di Bellinzona emerge un passato oscuro. Un passato fatto di violenze fisiche e verbali, abusi, soprusi. È quello delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi che hanno soggiornato loro malgrado nella struttura fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta. In quel luogo - oggi un’importante e riconosciuta realtà educativa per minorenni - per lungo tempo si è sviluppata una quotidianità fatta di privazioni, di totale mancanza di affetto, di gioventù calpestata. Erano i cosiddetti «figli di nessuno» a subire le violenze peggiori. Figli di ragazze madri, di famiglie numerose e poverissime, di nomadi, ma anche trovatelli, orfani. Tutti accomunati da un destino infame: essere reclusi fra quelle mura e subire maltrattamenti quasi ogni giorno, nell’indifferenza del mondo esterno e, soprattutto, dello Stato.
Il cortile e il muro
Oggi questo triste passato dell’istituto - comune a quello di molti altri centri svizzeri per minori - viene a galla in tutta la sua drammatica potenza grazie a un approfondito lavoro di ricerca svolto su richiesta dello stesso istituto e affidato a Marco Nardone, ricercatore presso l’Università di Ginevra. «Bisogna portare alla luce queste sofferenze!»; i collocamenti coatti all’istituto von Mentlen di Bellinzona (1932-1962) è il titolo dello studio che verrà presentato domani a Bellinzona. Uno studio che racchiude dodici testimonianze di donne e uomini che hanno vissuto in prima persona le violenze e le privazioni al von Mentlen. Hanno tutti un nome, un volto, un passato e un presente e hanno accettato di sottoporsi a un esercizio difficilissimo: raccontare ciò che hanno vissuto, dunque rivivere quei momenti, mettendosi a nudo. «Magari su 100 bambini, 50 ce l’hanno fatta a superare un po’ come me, anche se ci si tira dietro delle zavorre, però altri invece o sono morti prima o si sono suicidati». È Tamara P. che parla in una delle interviste e che dà la dimensione del macigno che l’ha schiacciata per tutta la vita. Del resto, come spiega lo stesso autore della ricerca, «il peso del collocamento e della vita dopo di esso poteva diventare insopportabile, come ad un certo punto è sembrato a Letizia F. e Simone T. Quest’ultimo era maggiorenne da poco quando è uscito dai vari istituti in cui è stato internato, senza lavoro, senza un posto dove andare e, alla fine, ha tentato il suicidio. Dal canto suo Alessio V. ha dovuto ricorrere a un percorso di psicoterapia per affrontare le difficoltà sorte dopo il collocamento». Ancora Simone T., in un altro passaggio, descrive ciò che era il ricovero von Mentlen per la gioventù abbandonata: «Il von Mentlen, come posso definire? Per me era l’anticamera dell’inferno. Non conosco altri aggettivi». Un inferno circondato da mura, come racconta Monica B. «C’era un grande cortile, ma tutto in giro era muro, non si vedeva niente». E Tamara P. riprende: «Nel cortile c’era una ramina enorme, dove tu non potevi proprio scappare, perché lì era poi tutto chiuso, cancelli. Io l’ho sempre considerato una prigione».
Le tante colpe
Per capire fino in fondo questo oscuro passato, le botte e gli abusi subiti dai bambini reclusi lì dentro, è però necessario concentrarsi sulla società svizzera e ticinese del tempo. Nardone innanzitutto riflette su chi gestiva il von Mentlen in quegli anni. Erano le suore della congregazione cattolica della Santa Croce di Menzingen, «rigide guardiane di una società intollerante e ostile verso tutto ciò che era fuori dalla norma». È proprio questa la chiave di volta per capire il contesto storico in cui si intrecciano i racconti dei protagonisti e perché sono stati internati in istituto. Al di là delle leggi e delle pratiche del tempo, spiega infatti Nardone, «nel contesto storico intorno alla metà del XX secolo la diversità era poco accettata e vi era una forte pressione verso l’omogeneità. I valori morali erano fissati in rigide norme sociali. La trasgressione e la devianza erano punite con sanzioni relativamente pesanti. Le persone collocate erano discriminate perché le loro famiglie (e di conseguenza anche loro stesse) erano considerate devianti rispetto alle norme morali e sociali in vigore in quegli anni». Era dunque un problema di società più che di rigidità educativa delle suore che gestivano l’istituto. Interessante, a questo proposito, anche la considerazione che fa il Consiglio di fondazione del von Mentlen nella prefazione e che tocca gli aspetti educativi. «In passato, e fino alla metà del secolo scorso, il bambino veniva considerato come una creatura incompleta e senza diritti riconosciuti. La punizione era l’elemento fondante del processo educativo. Quello che oggi viene considerato un maltrattamento era invece considerato un intervento necessario. L’uso della violenza era quindi giustificato e presente all’interno della famiglia, della scuola e nelle istituzioni per l’infanzia, sia private che pubbliche. Ma dalla presente ricerca, come confermato da altre ricerche, emerge purtroppo che si sono superati i limiti come, per esempio, gli abusi sessuali e forme di violenza esagerata».
Senza amore
A questo proposito Roberto B. dice: «Mi ricordo che ai primi tempi che ero giù piangevo sempre. E più piangevi e più prendevi botte». A rubare l’infanzia a questi bambini sono state quindi le suore, ma anche, in senso più allargato, lo Stato e la società tutta. Perché la reclusione, riprende Nardone, era sia fisica che sociale. «Più o meno tutto quello che succedeva all’interno dell’istituto restava all’interno dell’istituto. Non vi era nessun tipo di sorveglianza dall’esterno, né privata né statale. Ciò lasciava un grande margine di manovra alle suore responsabili della gestione dell’infanzia». I bambini diventavano quindi numeri. E quando sei un numero, non sei più niente. È un lacerante passaggio, raccontato da Emma V., a racchiudere tutto questo. E a riassumere l’essenza stessa della terribile esperienza al von Mentlen in quegli anni bui. «Per me l’enorme cosa che è mancata è l’affetto. Cioè l’affetto non esisteva e questo è brutto, eh. [...] Le suore erano dure, rigide, distanti, staccate, se non obbedivi ti arrivavano anche delle punizioni. [...] Erano proprio (sbatte il pugno sul tavolo, n.d.a.) aguzzine, eh».