L’inno di vita di due bambine sopravvissute a Auschwitz

È tutto un paradosso. La Shoah lo è. E lo sono le vite che ne sono scaturite. Lo è il dolore che non se ne va, neppure quando nonostante tutto si mischia a timidi sorrisi, quando tra tanta morte fa capolino l’amore, mancato e poi ritrovato. Tatiana e Andra Bucci sono due sorelle, le sorelle Bucci.
Sono bambine sopravvissute a Auschwitz. Ne sono uscite, salvate, liberate. Non come fumo, da quei camini che curavano puntando il naso all’insù. All’epoca erano convinte che ne sarebbero uscite da lì. «Da lì escono gli ebrei. Da lì usciremo anche noi». Auschwitz era diventata la loro normalità. Sorelline, piccole anime, piccole meraviglie, che con meraviglia erano abituate a osservare il mondo. Non avevano che pochi anni. Tatiana ne aveva sei e Andra quattro, quando vennero arrestate, a Fiume, con la loro famiglia, con la loro mamma. Il viaggio verso il campo di concentramento lo ricordano a sensazioni. Ricordano il treno merci, la confusione, i dubbi. Ricordano certi rumori, certi odori. Non tutto, per fortuna. «Anche se andando avanti con gli anni il passato sembra sempre più vicino», ci dice Andra. «E di fronte a certi ricordi, mi sembra tutto impossibile».
Vivere e convivere
Tatiana e Andra sono state trattenute a Auschwitz-Birkenau dal 4 aprile del 1944 al 27 gennaio del 1945, giorno della liberazione. Sono sopravvissute ma, come sottolineano nella loro autobiografia, «non siamo solo sopravvissute, abbiamo vissuto». In realtà parte da qui la nostra chiacchierata. Andra: «Una volta tornate, abbiamo vissuto una vita normale. I nostri genitori sono stati così bravi da non ossessionarci con i ricordi. Siamo cresciute come due ragazze dell’epoca. Di certe cose ce ne siamo rese conto soltanto con il passare del tempo». Vivere e convivere. Tatiana spiega: «Quanto vissuto torna più ora che non in passato, in particolare da quando abbiamo iniziato a testimoniare pubblicamente della nostra esperienza, tornando sui luoghi in occasione dei viaggi della memoria. Oggi è più facile tornare a Auschwitz, perché mentalmente ne sono uscita. Ma certo quando si entra è ancora dura, molto dura. Quando esco da lì, ho però la fortuna di essere la donna che sono oggi». In occasione dei viaggi della memoria, le due sorelle Bucci sono accompagnate da altri visitatori, da molti studenti spesso. «A volte vorremmo essere lì da sole, da sole con la nostra famiglia, in parte rimasta là». Poi Andra confessa: «Quando ne usciamo, poi mi ci vuole tempo per tornare a essere come prima, per tornare a dormire come prima, per scostare il ritorno di certi sogni».
Capire di essere ebree
Andra è la sorella minore. Il rapporto con Tatiana è trasparente, come trasparenti sono le differenze caratteriali. Hanno un diverso approccio al racconto, probabilmente allora anche al ricordo. «Siamo molto legate ma litighiamo spesso, proprio come due sorelle», proprio come quando, da bambine, si arrabbiavano se qualcuno le scambiava per gemelle. Eppure tale somiglianza ha contribuito alla loro sopravvivenza. Vennero bollate come gemelle, al loro arrivo al campo, come materiale - sì, è il caso di dirlo - utile a Josef Mengele per i suoi esperimenti. Sono poche decine i bambini sopravvissuti a Auschwitz, a Mengele, all’angelo della morte.
«Non so se il fatto di essere state lì bambine abbia reso il tutto più facile o più difficile - spiega Andra - È vero però che perlomeno non capivamo la gravità di ciò che ci stava succedendo. Da bambino non sai bene cosa sia la morte, certo capisci il dolore, ma non la morte, il non vedere più una persona». Tatiana aggiunge: «Passavamo le nostre giornate giocando con gli altri bambini, senza giochi, con quello che si trovava. Li “vediamo”, oggi, gli altri bambini, ma non ricordiamo le loro facce, solo quella di nostro cugino Sergio. Io mi resi conto lì di essere ebrea. Ci dicevano che eravamo ebree. Capii di esserlo, capii che noi ebrei dovevamo vivere così, in una baracca, tra freddo e disagi. Pensai che quella fosse la mia vita, in quanto ebrea dovevo viverla così. La accettai senza rendermene conto, così come accettai che la nostra fine sarebbe stata di uscire da quel camino a pochi passi dal nostro dormitorio».
A Auschwitz la vita era la morte
La non vita come normalità. La morte come normalità. Due bambine perse nel mondo, con la mamma poco lontana ma irraggiungibile. In qualche caso fu lei ad avvicinarle, rischiando la sua stessa vita. Riuscì addirittura a visitare Andra nell’ospedale del campo, dove era stata brevemente ricoverata. In ogni occasione, ricordava alle figlie i loro nomi. «Vi chiamate Liliana e Andra, e siete italiane. Non dimenticatelo mai». Non lo dimenticarono. Liliana era il vero nome di Tatiana: a Birkenau, e poi oltre, ancora per un breve periodo, sarebbe stata Liliana, punto. Ricordare i propri nomi significava poter sperare di ritrovare la propria famiglia nel caso di un’eventuale liberazione. Così fu. Nella loro autobiografia, le due sorelle scrivono: «È stata la sua generosità, la sua voglia di vivere malgrado tutto, insieme al suo grande amore per noi, a salvarci durante la guerra e a farci ritrovare dopo». Intollerabile provare a intuire cosa debba aver provato, la mamma, quando le informò, un giorno, nel campo, che non avrebbe più potuto andare a trovarle. Non andò più. Loro pensarono fosse morta, se ne convinsero. Tatiana oggi racconta: «Non ricordo di aver pianto o di aver provato dolore. La mamma era morta, la vita continuava. La morte era ovunque, ogni giorno. La vita era la morte a Birkenau. Per sopportarlo, costruimmo una corazza. Vedere la propria mamma allontanarsi per sempre e non piangere: piango oggi, ogni volta che ci penso».
Ritrovare la mamma
La corazza di cui parla Tatiana sono loro stesse, lo sono state l’una per l’altra. «In due è stato più facile», ammettono. Da Fiume a Auschwitz, e poi a Praga. Dopo la liberazione, l’orfanotrofio. E quindi Lingfield, in Inghilterra, presso un centro di recupero diretto da Anna Freud. Lì ritrovarono l’amore. «A Praga dimenticammo l’italiano e imparammo il ceco, anche se tra noi parlavamo tedesco. A Lingfield imparammo l’inglese, anche perché il tedesco era vietato, quindi tra noi il nostro linguaggio segreto divenne il ceco». Tutto nel giro di pochi mesi. Quindi vennero ritrovate - l’importanza di non aver mai scordato il loro nome, né i volti dei genitori, riconosciuti in una foto - e tornarono in Italia, nel dicembre del 1946, a Roma. Si erano talmente affezionate alle donne di Lingfield, che piansero una volta ritrovata la mamma. L’imbarazzo forse, nel ritrovarsi di fronte a quello che era diventato un fantasma, al massimo un tenero ricordo.
La protezione
Il paradosso dell’amore, si diceva, pur nella tragedia. L’amore torna spesso, nei racconti di Andra e Tatiana. Così come torna la loro madre. La loro è anche una storia materna, di madri e figlie. Nel loro racconto c’è anche la visione della madre, un tentativo di immaginare il suo drammatico punto di vista sull’accaduto. «Non ne abbiamo praticamente mai parlato, con lei. Raccontammo tutto al nostro ritorno, poi basta. Tornavano i giorni felici di Lingfield, ma nient’altro». Ancora una volta il senso di protezione della mamma. Un senso provato anche dalle due sorelle, una volta diventate madri a loro volta. Tatiana ammette: «Ho cominciato molto tardi a raccontare ai miei figli la nostra storia». E Andra: «La mia prima figlia vide da piccola il numero sul mio braccio. Lo aveva già visto in altre occasioni, ma quel giorno le scattò la curiosità e mi chiese cosa fosse. Le spiegai come si poteva spiegare a una bambina. Poi di volta in volta volle saperne sempre di più. La mia seconda figlia invece si fermò al primo racconto, poi tornò ad aprirsi soltanto una volta nato suo figlio, mio nipote. Ricordo quando nacque, Joshua: quel giorno pensai a mia madre, a cosa potesse aver provato». Anche Tatiana ricorda: «Anch’io, quando ebbi il mio primo bambino tra le braccia, pensai a mamma, per quello che è stato dopo, per come l’accogliemmo a Roma. Per rendersi conto del dolore dato a una madre, occorre diventare madri».
I sensi di colpa
Poi sempre Tatiana esclama: «Ci chiedono come abbiamo fatto a sopravvivere. Non abbiamo fatto nulla di particolare. La vita ha voluto che fossimo qui oggi a parlare di quanto ci è successo, che ci fossimo noi e non gli altri bambini che erano con noi. Credo nel destino, nella vita, non ad altro. Mi sento profondamente ebrea, ma non sono credente. Mi chiedo dove fosse Dio, dov’è tuttora. Non ce la faccio a credere». Il ruolo del caso, dei casi. La vita di Tatiana e Andra è stata piena di svolte, sfortunate e fortunate, senza soluzione di continuità. «Quando nasci hai un tuo tracciato, una tua linea. C’è chi finisce e va fino in fondo, chi si ferma prima. Il nostro tracciato era destinato a essere più lungo di quello degli altri. Poi il resto avranno fatto anche gli anticorpi, forse, la salute, il fatto di essere state forti, la fortuna di non esserci ammalate. Per tutte le cose della vita bisogna essere al posto giusto nel momento giusto.
Il fatto di essere sopravvissute ad altri bambini, tra cui il cugino Sergio, viene oggi vissuto con sentimenti diametralmente opposti dalle due sorelle Bucci. Tatiana aggiunge: «Sensi di colpa non ne ho mai avuti. Non ho mai fatto nulla per essere salvata al posto di un altro bambino. La vita ha voluto che oggi fossi io a ricordare Sergio e non il contrario. Lui sarà sempre vivo dentro di me, però è rimasto bambino». Andra, dal canto suo, sussurra: «Io sono diversa da mia sorella, al contrario ho dei sensi di colpa rispetto agli altri bambini di Birkenau, in particolare a Sergio».
Il cugino Sergio
Sergio De Simone era figlio di Gisella, sorella di Mira, la madre di Tatiana e di Andra. Nei suoi confronti il destino si accanì con particolare ferocia. Oppure erano i nazisti? Nel suo caso non c’è distinzione. Con i suoi genitori viveva a Napoli, padre però per mare, come il cognato - entrambi imprigionati all’epoca -, si trasferì a Fiume appena prima di incappare nell’arresto, appena prima della liberazione di Napoli. Rinchiuso a Birkenau, con le cuginette, Sergio un giorno non riuscì a resistere alla malinconia e venne condannato. Passò un ufficiale tedesco e chiese a tutti i bambini chi volesse ritrovare la propria madre: in venti fecero un passo in avanti. Non Tatiana e Andra. Una blockova, ovvero una guardiana del campo, affezionatasi a loro, già le aveva sconsigliate, il giorno prima. «Non muovetevi». Provarono a convincere Sergio. Ma quel passo fu più forte di lui. Dovette farlo. Salutò le cuginette e se ne andò, convinto che ad accoglierlo sarebbe stata la mamma. Sergio viene ricordato oggi come uno dei venti bambini di Bullenhuser Damm, torturato e poi ucciso. «A noi quella blockova diede la vita», ricorda oggi Andra. Il paradosso della vita, già. «Sergio era figlio unico. Non ci dette ascolto. Nostra zia, sopravvissuta al campo, mai si arrese, mai accettò la morte di Sergio, neppure dopo aver scoperto la verità su di lui, anni dopo. Morì convinta che suo figlio fosse ancora vivo».
L’importanza della memoria
La memoria di Andra e Tatiana è fondamentale anche per ricordare Sergio. Sono fondamentali i loro racconti, i loro viaggi. «Non si è costretti ad andare a Auschwitz, occorre essere pronti. Ma non è una colpa non andarci, è semmai una difesa. Noi per fortuna ci tornammo che era estate, per cui l’impatto non fu doloroso come avrebbe potuto essere d’inverno, riportando a galla il freddo patito». Andra si commuove nel ricordare il viaggio fatto con suo nipote. «Aveva tre anni. Per me è stato allora molto pesante. In qualche modo ho sempre voluto difendere la mia famiglia da ciò che ho vissuto, da ciò che lì avrebbero visto o sentito». Si torna all’istinto materno, alla protettività. Ma altrettanto forte è la volontà di lasciare un messaggio, più odierno che mai. «Ricordare è fondamentale. Senza passato, come si dice, non esiste il futuro. L’indifferenza si sfida parlando e raccontando», dice Tatiana. Che poi aggiunge: «È fondamentale oggi più di ieri, visto quanto sta succedendo. Abbiamo la memoria corta evidentemente. Ma l’uomo non è capace di sole cattiverie, sa anche dare la vita per gli altri. Speriamo che ciò possa prevalere sul resto. Voglio rimanere ottimista. E poi guardate la nostra storia; la nostra testimonianza lo dimostra: hanno voluto distruggerci, ma non ci sono riusciti, siamo ancora qui. Ci sono i nostri nipoti, sono loro a dimostrare la forza dell’uomo sulla cattiveria. E ora il mio sogno è portarli anch’io, come ha fatto Andra, con me, a vedere dove sono stata, dove siamo state». Da bambine, da piccole meraviglie.
Due giornate per non dimenticare
L’appuntamento organizzato dalla Goren Monti Ferrari Foundation, in collaborazione con l’USI e il Corriere del Ticino, si articola su due giornate, tra domani e giovedì. Domani, l’incontro all’aula magna dell’USI di Lugano con le sorelle Bucci è doppio: alle 9.00 verranno accolte da 450 studenti delle scuole medie (a moderare, Fiona Diwan); per le 18.00 è fissata la testimonianza pubblica, in questo caso moderata dal collega Carlo Silini. Giovedì alle 10.00, presso le scuole medie di Viganello, verrà inaugurato il Giardino delle venti rose bianche, in memoria dei bambini di Bullenhuser Damm, con l’affissione di una targa che ne ricordi la tragica, crudele, vicenda.
Il Giardino delle venti rose bianche
Micaela Goren Monti spiega l’idea alla base del Giardino. «È la testimonianza di quanto efferata sia stata tutta la Shoah. Quando a freddo si uccidono venti bambini, impiccandoli, allora questa diventa la storia che riassume tutto ciò che di cattivo e di terribile è stato fatto. Per me è quindi molto importante ricordarlo. Le persone che non ci sono più, i bambini che non ci sono più, rimangono perché rimangono nella memoria. Il giorno in cui non ci dovesse essere più memoria, questa realtà sfumerebbe. Finché possiamo, dobbiamo ricordare e dobbiamo raccontare, soprattutto ai più giovani. Lo avevamo fatto grazie alla testimonianza di Liliana Segre, lo faremo grazie a Tatiana e Andra Bucci. Il Giardino delle venti rose bianche rimarrà a testimonianza, così come la targa speriamo possa spingere chi la legge a saperne di più, a informarsi di più, di chi è morto soltanto perché nato ebreo. Nascere di una certa religione o con un determinato colore della pelle non può essere una ragione per essere uccisi».
I bambini di Bullenhuser Damm
Per riportare a galla la vicenda di Bullenhuser Damm, fondamentale è stato il lavoro di un giornalista tedesco, Günther Schwarberg, che a quell’episodio ha dedicato una lunga fetta della sua stessa vita. Ha riletto la storia e l’ha approfondita, fino a trovare nomi e famiglie. Nel sito dell’associazione I bambini di Bullenhuser Damm, si riassume: «In questa cantina (quella della scuola di Bullenhuser Damm di Amburgo) sono stati impiccati venti bambini ebrei. Erano venuti da Auschwitz, di età compresa tra i cinque e i dodici anni. Dieci femmine e dieci maschi. Nel campo di concentramento di Neuengamme nei pressi di Amburgo il medico delle SS Kurt Heissmeyer aveva fatto esperimenti medici, aveva iniettato sottopelle i bacilli della tubercolosi. Aveva fatto asportare chirurgicamente le ghiandole ascellari per vedere se si fossero formati anticorpi contro la tubercolosi. Il fatto è successo proprio alla fine della guerra. Per eliminare i testimoni viventi dei loro crimini ha fatto impiccare i bambini il 20 aprile 1945 e ha fatto cremare i cadaveri». Micaela Goren Monti spiega: «Heissmeyer non ha quasi fatto prigione, non è stato colpevolizzato, ha giustificato tutto fino all’ultimo, parlando di progetti superiori. Un fatto raccapricciante».
Un fiore anche per Sergio De Simone
Tra quei venti bambini, attirati con l’inganno - con l’esortazione: «Chi vuole rivedere la sua mamma, faccia un passo avanti» -, c’era anche Sergio De Simone. Una delle rose bianche sarà la sua. Ancora Micaela Goren Monti: «È una testimonianza contro l’indifferenza. Ce n’è molta, troppa. Troppa gente non vuole sapere. Per questo è importante coinvolgere i ragazzi, perché sono più sensibili, perché leggono di più il futuro, e devono poterlo leggere sulla base dell’esperienza del passato».



