«L’intervento francese in Sahel è stato un successo parziale»

Lo scorso 9 novembre il presidente francese Macron ha annunciato la fine ufficiale dell’operazione Barkhane nel Sahel destinata a contrastare il terrorismo di matrice islamica nella regione subsahariana. Cosa rimane di quest’ intervento dell’esercito francese durato un decennio? Abbiamo sentito le valutazioni di Luca Raineri, ricercatore in studi di sicurezza presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
Che bilancio possiamo fare dell'operazione Barkhane?
«L’operazione Barkhane in origine era dispiegata tutt’intorno alla Libia con l’obiettivo di impedire il flusso di armamenti che dalla Libia sarebbero andati a rifornire i gruppi jihadisti nel Sahel. E questo obiettivo è stato conseguito, nella misura in cui sono state effettuate numerose intercettazioni e il sistema di sorveglianza messo in atto dai francesi ha impedito il flusso di armamenti pesanti. Naturalmente in un territorio così sconfinato non è stato possibile impedire piccoli traffici di armi, e va anche messo in conto che nel frattempo è scoppiata la guerra in Libia che ha riassorbito gli armamenti all’interno del Paese. Oggi le armi a disposizione dei gruppi jihadisti nel Sahel raramente possono essere fatte risalire agli arsenali presenti in Libia. Quindi da questo punto di vista l’operazione Barkhane è stata un successo. Ma si tratta di un successo parziale, dato che l’intervento francese nel Sahel non è stato in grado di arginare l’espansione dei gruppi jihadisti nella regione. Anzi, in alcuni casi l’azione militare di Parigi potrebbe aver contribuito, suo malgrado, alla diffusione di questi gruppi di estremisti religiosi».
Come mai?
«In quanto il dispiegamento di un numero limitato di uomini in un territorio così ampio non avrebbe potuto aver luogo senza stringere delle alleanze con alcuni gruppi non statali locali. È esattamente quello che è stato fatto con i curdi in Siria o con le forze di Misurata in Libia. È una pratica invalsa delle strategie di controterrorismo. Tuttavia nel Sahel questo tipo di legami con alcuni attori armati locali ha finito per alimentare delle tensioni tra comunità, dando luogo a regolamenti di conti interetnici, che sono una delle cause principali della capacità di arruolamento dei gruppi jihdisti. In quanto nell’ambito di tali contese di tipo interetnico i jihadisti vengono spesso identificati come dei protettori di alcune comunità, ai danni di altre».
Proprio venerdì Parigi ha annunciato che sospenderà la cooperazione allo sviluppo in Mali. Una risposta all’alleanza tra le autorità locali e i mercenari russi del gruppo Wagner. Quali le possibili conseguenze di tale mossa?
«Va detto che un conto sono gli aiuti alimentari, un conto è l’aiuto allo sviluppo. I primi, legati alla lotta alla fame, a catastrofi naturali improvvise o a epidemie, non verranno toccati e Parigi continuerà a intervenire. Cambia invece l’aiuto allo sviluppo che è uno strumento politico. Il ritiro di questo aiuto è uno strumento di pressione usato da Parigi contro un Paese mostratosi più volte ostile nei confronti della Francia. Va comunque considerato che l’aiuto che Parigi erogava al Mali era sì importante, ma non decisivo. Non credo quindi che ciò farà la differenza nello sviluppo del Paese, compromesso da ben altri problemi».
La Russia sta cercando da tempo di ampliare la sua presenza anche in Africa. Fino a che punto la fine dell’operazione Barkhane decisa dalla Francia favorirà l’estensione dell’influenza russa nel Sahel?
«Ciò favorirà solo in misura limitata l’espansionismo russo in quest’area dell’Africa. L’operazione Barkhane era dispiegata dichiaratamente su cinque Paesi, ma di fatto solo su quattro Paesi dai quali il ritiro francese è già completamente avvenuto lo scorso febbraio, e in realtà era stato avviato prima dell’arrivo delle truppe del gruppo Wagner. Il ritiro deciso da Parigi fa parte di un disegno strategico volto a riorientare le forze limitate francesi verso obiettivi ritenuti ormai prioritari, quali la lotta all’espansionismo russo e all’influenza cinese. Quindi, per quanto riguarda il ritiro dal Mali, la mossa francese è completamente allineata su obiettivi NATO di conflitto strategico. Mentre in altri Paesi della regione il dispositivo francese rimarrà presente, come in Niger, dove verrà rinforzato, e in Ciad e in Burkina Faso, dove verrà po’ alleggerito. Si tratterà di rapporti bilaterali, e non di una missione coordinata, e cambierà la modalità d’intervento: sempre più in partenariato con i Paesi locali e sempre meno come intervento indipendente di forze francesi. Per cui la presenza della Francia resta garantita».
Nonostante l’impegno francese, le violenze di matrice politica e religiosa sono una triste costante in quest’area. Con quali conseguenze sui flussi migratori?
«I dati a disposizione rivelano che la migrazione che si origina nei Paesi del Sahel è in larghissima parte di tipo regionale, e che quindi si mantiene all’interno dell’Africa e dei Paesi limitrofi. «Mentre la piccola percentuale che procede nel proprio viaggio oltre i confini africani - precisa il nostro interlocutore - non è influenzata da dinamiche di conflitto ma da fattori di lungo termine quali il cambiamento climatico».