Elezioni USA

Lo show prosegue, ma il copione ora è cambiato: «Sarà Trump a finire sulla graticola per l’età»

Dopo l’abbandono di Biden è partita una nuova corsa che obbliga anche il candidato repubblicano a ripensare la propria strategia: ne parliamo con Giampiero Gramaglia, esperto di politica americana e consigliere dell’Istituto Affari Internazionali di Roma
©ALLISON DINNER
Francesco Pellegrinelli
23.07.2024 06:00

Fuori Biden e palla al centro. Il partito dell’asinello “scarica” il presidente e si rimette in marcia per recuperare lo scarto accumulato nelle ultime settimane. Settimane di grazia per il candidato repubblicano, culminate con l’orecchio fasciato, simbolo di una rinascita politica e di un vigore che mancava all’avversario. Ora, però, la narrazione si arricchisce di un nuovo capitolo che rimescola nuovamente le carte. Da una parte come dall’altra. «Nell’ottica della campagna repubblicana, Trump non ha perso tempo per chiedere ai democratici i danni per frode, avendogli fatto credere che l’avversario fosse Biden», commenta al CdT l’esperto di politica americana e consigliere dell’Istituto Affari Internazionali di Roma Giampiero Gramaglia. La strategia dello staff repubblicano ora dovrà essere rivista: «Al di là dello sforzo economico, non indifferente, per correggere slogan e spot, il messaggio andrà indirizzato contro un avversario che i repubblicani ancora non conoscono». Non solo. Come spiega Gramaglia, «Trump si ritrova, di colpo, a essere il candidato più vecchio della competizione, quello più anziano mai candidato alla Casa Bianca e, se dovesse vincere, il più anziano presidente mai entrato nell’Ufficio ovale». Ecco servito il ribaltone. Quando Biden entrò alla Casa Bianca aveva 77 anni; Trump (se dovesse vincere) ci entrerebbe a 78 compiuti. Quindi sulla graticola rischia proprio di finirci lui.

Ma a cambiare, con l’uscita di scena di Joe Biden, saranno anche i temi della campagna, tenuto conto che al nuovo candidato democratico non si potranno rimproverare i presunti fallimenti (nell’ottica dei conservatori) dell’amministrazione Biden: «Se sarà Kamala Harris le si potranno muovere maggiori critiche, in particolare sulla gestione dell’immigrazione, dossier che era sotto il suo controllo. Ma in politica estera la conduzione è stata fortemente ancorata nelle mani di Biden», spiega Gramaglia. «Se, invece, il candidato non dovesse essere Harris, a maggior ragione non gli si potrebbero scaricare addosso le colpe di Biden». Gramaglia tende comunque a escludere la possibilità che la vicepresistente venga estromessa per ragioni strategiche dalla corsa dem: «I vertici del partito stanno sicuramente valutando i pro e i contro. Un personaggio nuovo che non ha legami e responsabiltà dirette con l’amministrazione Biden spazzerebbe il campo da ogni critica, ma allo stesso tempo significherebbe sconfessare quanto fatto e votato finora dal partito, ammettendo di aver sbagliato due volte la scelta dei candidati: Biden ora, e Harris nel 2020, quando venne scelta come numero due». C’è poi una ragione molto pratica che avvalora la tesi della continuità. I fondi dati a Biden erano assegnati al ticket Biden-Harris. La transizione con Kamala potrebbe quindi essere meno indolore. Inoltre, come spiega l’esperto, Biden è titolare delle migliaia di delegati che gli erano stati assegnati con le primarie. Il vincolo di seguire le indicazioni del presidente, ora, è caduto. Rimane però il peso del suo endorsement. «Si potrebbe pensare che ci sia già un pacchetto molto corposo di delegati inclini a votare Harris».

Si diceva dei temi. Secondo Gramaglia, i repubblicani continueranno a insistere sull’immigrazione - anello debole della gestione Biden, perlopiù affidato ad Harris - e sull’economia: «In America c’è la percezione diffusa che l’economia vada male, semplicemente perché il costo della vita è peggiorato a causa dell’inflazione rispetto all’inizio della presidenza Biden». Sul fronte opposto, specie se dovesse essere Harris la candidata, i democratici punteranno sui temi sociali, sulle minoranze e sull’aborto. «In quanto donna e magistrato è probabile che Harris enfatizzerà questo tema, particolarmente sensibile per l’elettorato americano femminile».

Nella campagna dei colpi di scena, a muovere fette considerevoli di elettorato saranno, mai come quest’anno, anche le percezioni. Lo stato di salute dell’economia americana è un buon esempio, commenta Gramaglia: «Sull’economia c’è una netta differenza tra il dato reale e quello percepito». Il primo dice infatti che l’economia americana sta crescendo. «Il mercato del lavoro è dinamico e i salari sono saliti molto. Tuttavia, ciò che viene percepito è la perdita del potere di acquisto. In una società mobile come quella USA, dove si vende e si acquista casa molto più facilmente per seguire le offerte di lavoro, il costo del denaro, che si riflette nel tasso ipotecario, è molto sentito». Stesso discorso per l’inflazione che muove il costo del gallone alla pompa di benzina. «Alla fine, le persone percepiscono questo aspetto molto di più rispetto ai dati macroeconomici come il PIL».

In generale, comunque, al di là del tema economico, Gramaglia osserva un netto cambiamento nell’impalcatura delle campagne elettorali. «Anche solo rispetto alle recenti corse di Bill Clinton o Barack Obama, basate su dati e ragionamenti, il personaggio Trump ha introdotto - nella scia di un cambiamento sociale e di comunicazione politica portato dai social - una consuetudine per cui la narrazione vale più del fatto. Anzi, il fatto, nel racconto di Trump non esiste. Il fatto è quello che lui dice. Anche se poi non ha alcuna attinenza con la realtà». Un fenomeno non certo nuovo, a dire il vero, ma sicuramente accentuato dallo stile spigoloso del tycoon. «Dagli anni ’60 le elezioni americane sono lo spettacolo politico internazionale più seguito. Un grande show. Le Olimpiadi della politica», conclude Gramaglia. E lo spettacolo deve andare avanti.

Ufficialmente la campagna elettorale per le presidenziali USA inizia il giorno dopo il Labor Day, che cade il primo lunedì di settembre. Pertanto, la corsa ufficiale che durerà fino a novembre inizierà il 3 di settembre. A ritmare l’agenda ci sarà anche «la sorpresa di ottobre», un termine usato nella politica statunitense per descrivere un fatto nuovo che potrebbe sconvolgere i pronostici elettorali. «Si tratta di un’invenzione giornalistica per creare suspense», spiega Gramaglia. «Questo concetto nasce in relazione al fatto che nel 1864, durante la guerra civile, Lincoln stava per perdere le elezioni, ma attorno al 20 ottobre ottenne un’importante vittoria che ribaltò il proprio destino elettorale». Poco dopo, Lincoln venne infatti riconfermato alla presidenza.