L'intervista

«L’ospedale universitario non è una questione logistica»

Il decano dell’USI Giovanni Pedrazzini riflette su traguardi e obiettivi della Facoltà di scienze biomediche
©Gabriele Putzu
Francesco Pellegrinelli
14.01.2025 06:00

Come conciliare prossimità e concentrazione delle cure? Occorre regolamentare anche il settore ambulatoriale? Le riflessioni del decano Giovanni Pedrazzini, partendo dai traguardi e dagli obiettivi della Facoltà.

Professore, la Facoltà di scienze biomediche dell’USI è nata nel 2014 con l’obiettivo di contribuire alla carenza di medici formati in Svizzera. Qual è oggi la situazione?
«La situazione è migliorata, ma il problema resta lungi dall’essere risolto. Il progetto del Consiglio federale di aumentare il numero di medici diplomati in Svizzera ha contribuito solo parzialmente a colmare questa lacuna critica. Negli ultimi anni, il numero di medici diplomati in Svizzera è passato da circa 900 a 1.350, un aumento significativo, ma ancora insufficiente rispetto al fabbisogno attuale e futuro. Oggi, il territorio svizzero soffre di una marcata carenza di medici, soprattutto di medici di famiglia, ma in futuro verranno a mancare anche quelle figure che per anni sono giunte in Svizzera dai Paesi limitrofi. Il problema principale risiede nella mancanza di dialogo e coordinamento tra le università, che formano i medici, e gli ospedali, che li assumono e li specializzano. Per anni, questi due mondi hanno operato separatamente, senza una strategia comune».

Che momento sta vivendo oggi la Facoltà? Quali sono le prossime sfide, politiche e organizzative?
«La Facoltà di scienze biomediche dell’USI sta attraversando un momento positivo in termini di risultati. Gli studenti che scelgono di venire in Ticino ottengono buoni risultati: nei primi due anni, tutti sono stati promossi all’esame federale. La qualità della formazione è elevata e i parametri di confronto con gli altri centri universitari svizzeri – tra i migliori al mondo – confermano l’eccellenza del percorso offerto. Tuttavia, permangono alcune sfide, in particolare nel reclutamento degli studenti. La facoltà prevede di formare 72 studenti all’anno, ma questo obiettivo non è ancora stato raggiunto. Ciò è dovuto a diversi fattori, tra cui la difficoltà di convincere studenti di città come Zurigo o Basilea, con cui esistono accordi, a trasferirsi in Ticino. Le ragioni sono comprensibili: molti preferiscono restare vicini alla famiglia, e i costi universitari in altre città sono spesso inferiori rispetto a Lugano. Per attrarre più studenti, la facoltà deve continuare a puntare su un’offerta di formazione di eccellenza, un obiettivo che richiede grande impegno. Il mancato raggiungimento del numero ideale di iscritti comporta però problemi di finanziamento, poiché gli studenti extra-cantonali rappresentano una fonte cruciale di sostegno economico per la facoltà».

Perché uno studente di medicina dovrebbe scegliere il Ticino che tradizionalmente non rappresenta una piazza storica?
«L’obiettivo è offrire un percorso che rappresenti un plusvalore rispetto ad altre università svizzere, già altamente quotate. Per rendere la nostra offerta più appetibile, puntiamo su un modello formativo differenziato, che si basa su piccoli gruppi di studenti e su un’intensa attività clinica. Quest’ultimo aspetto, in particolare, è un elemento distintivo che non tutte le altre università riescono a garantire. Lo studente sceglie il Ticino quando percepisce che da noi può trovare un valore aggiunto alla sua formazione. Inoltre, è importante sottolineare un altro aspetto cruciale per la nostra facoltà: la possibilità di avvicinare rapidamente i giovani studenti alla ricerca d’alto livello. Il futuro del Ticino si sta orientando sempre più verso la ricerca in ambito biomedico, e la facoltà gioca, insieme ai numerosi altri partner, un ruolo importante in questo processo».

Che cosa significa per il Ticino il master in Medicina, giunto nel 2023 alla fine del primo ciclo triennale di formazione?
«L’arrivo di circa sessanta giovani studenti per anno ha portato con sé una ventata di freschezza: una cultura nuova, dinamica e aperta, che ha avuto un impatto positivo su tutti i livelli del sistema sanitario. Questi studenti, con le loro elevate aspettative e il loro entusiasmo, spingono non solo la facoltà, ma anche le strutture ospedaliere a migliorarsi continuamente. Essere all’altezza della sfida formativa implica per gli ospedali un doppio impegno: da un lato garantire un’istruzione di alta qualità, dall’altro mantenere standard elevati nella cura dei pazienti. L’obiettivo non è solo formare medici, ma bravi medici. Il beneficio per il territorio è duplice: nel breve termine, questa “ventata d’aria fresca” aiuta a migliorare la qualità dei diversi servizi, spronati a esprimersi al meglio di fronte a giovani studenti desiderosi di imparare e di conoscere “role models”. Nel lungo termine, il master potrebbe creare una generazione di medici formati con un forte senso di identità e appartenenza territoriale. Anche se molti di loro torneranno in altre regioni della Svizzera, è prevedibile che una parte rimanga in Ticino».

Un tempo si diceva - scherzando ma non troppo - che l’ospedale migliore, in Ticino, fosse il primo treno per Zurigo. Oggi?
«La sanità ticinese oggi è pienamente all’altezza degli ospedali universitari svizzeri, un risultato frutto di una visione strategica avviata negli anni ’90. In quel periodo, il Ticino ha preso coscienza della necessità di trattenere i pazienti che altrimenti si sarebbero rivolti agli ospedali della Svizzera interna. Per raggiungere questo obiettivo, si è deciso di investire nella creazione di strutture di eccellenza, iniziando con settori chiave come oncologia, cardiologia e neurologia, e ampliando progressivamente l’offerta ad altri servizi. Oggi il Ticino ha colmato gran parte del divario che lo separava dagli ospedali universitari, in particolare con Zurigo, che rappresenta la struttura di riferimento più vicina. Fatta eccezione per alcune aree altamente specialistiche, il livello delle cure offerte in Ticino è ormai comparabile a quello delle migliori istituzioni svizzere. Con l’aggiunta del contributo degli studenti di medicina, il sistema sanitario ticinese si sta ulteriormente rafforzando. Anche nel campo della ricerca, il Ticino si sta avvicinando sempre di più alle strutture storicamente trainanti della Svizzera».

L’EOC riveste un ruolo fondamentale. Senza il suo contributo, nulla di quanto discusso finora sarebbe stato possibile. In un certo senso, è il “fratello maggiore” della facoltà, e un partner stretto e imprescindibile dell’Università, che sostiene e accompagna ogni passo del nostro percorso

Che ruolo ha l’Ente ospedaliero cantonale (EOC) in questa avventura?
«L’EOC riveste un ruolo fondamentale. Senza il suo contributo, nulla di quanto discusso finora sarebbe stato possibile. In un certo senso, è il “fratello maggiore” della facoltà, e un partner stretto e imprescindibile dell’Università, che sostiene e accompagna ogni passo del nostro percorso. Dal punto di vista della formazione, l’EOC ha una missione istituzionale chiara e cruciale: non solo garantire cure di qualità, ma anche promuovere, insieme all’Università, la formazione e la ricerca. Questo approccio integrato lo rende un pilastro del sistema sanitario e accademico ticinese. Per queste ragioni non è soltanto auspicabile, ma addirittura necessario, nel segno di un irrinunciabile senso di responsabilità, che fra Università, Facoltà di scienze biomediche e EOC vi sia un dialogo costante, costruttivo e orientato a realizzare gli obiettivi condivisi. Anche il Cantone ha un ruolo importante affinché questo dialogo si affermi e progredisca costantemente».

Quale ulteriore salto potrebbe fare la sanità ticinese con un ospedale universitario? Come si raggiunge questo obiettivo? È solo una questione logistica?
«Il tema della trasformazione della sanità ticinese in un sistema con un ospedale universitario è una questione complessa e strategica, simile per certi aspetti al progetto AlpTransit degli anni ’90. Allora, la Svizzera dovette decidere se abbracciare una visione ambiziosa e impegnativa, senza avere certezze immediate su come si sarebbe concretizzata. Oggi ci troviamo in una situazione analoga: dobbiamo chiederci, in primis il Cantone, l’Ente ospedaliero cantonale e l’Università, se vogliamo diventare un ospedale universitario, quale modello vogliamo perseguire e quali benefici potrebbe portare a un territorio piccolo come il Ticino. Aspirare a un ospedale universitario significa puntare su tre pilastri: offrire cure migliori, formare eccellenti professionisti e produrre ricerca di livello internazionale. Tuttavia, il percorso per raggiungere questo obiettivo è complesso. Un ulteriore livello di complessità deriva dal fatto che il concetto stesso di ospedale universitario è in evoluzione. Sebbene oggi esistano criteri più chiari rispetto al passato, gli ospedali universitari storici della Svizzera – come quelli di Zurigo, Basilea e Berna – si sono sviluppati in modo spontaneo e adattivo. Pensare di replicare esattamente quei modelli sarebbe irrealistico. Piuttosto, dobbiamo immaginare un nuovo tipo di ospedale universitario, proiettato verso il 2040, che risponda alle esigenze e alle opportunità di quel futuro. La digitalizzazione, l’intelligenza artificiale e la telemedicina stanno ridefinendo le modalità di diagnosi e cura, rendendo meno rilevante il concetto tradizionale di ospedale fisico centralizzato. Pertanto, non è solo una questione logistica; anche se è evidente che un ospedale universitario risulta più semplice da gestire se concentrato in un’unica sede. La logistica, però, non credo che debba diventare il criterio decisivo per stabilire la fattibilità del progetto».

Il recente dibattito sulla pianificazione ospedaliera ha riaperto il delicato tema della concentrazione dell’offerta (basata sul fabbisogno) in contrapposizione all’accessibilità e alla prossimità delle cure. Che idea si è fatto?
«Penso che sarebbe un errore adottare un approccio dogmatico, scegliendo di concentrare tutte le prestazioni in un’unica struttura o, al contrario, mantenendo una medicina di prossimità che offra ovunque anche servizi altamente costosi. Una possibile soluzione si trova nei modelli cosiddetti «hub and spoke», raggio e perno, che prevedono la concentrazione delle cure altamente specializzate e costose in centri dedicati, dotati delle tecnologie e delle competenze necessarie per garantire standard elevati, mentre le cure di base e i servizi essenziali rimangono distribuiti sul territorio per preservare la prossimità. Questo approccio ibrido è già in parte adottato, come dimostrano esperienze interne a strutture come il Cardiocentro. Da un lato, le cure avanzate vengono erogate nel centro di riferimento con competenze specializzate e attrezzature tecnologiche. Dall'altro, si mantiene una rete capillare per le cure di prossimità».

Il forte sviluppo del settore ambulatoriale la preoccupa? Anche questo ambito andrebbe sottoposto, come lo stazionario, a una pianificazione cantonale per contenerne la crescita?
«La medicina genera un indotto economico che non può essere ignorato e che ha portato alla crescita di cliniche private e istituti pubblici, attirando acquisizioni da parte di gruppi di interesse... Del resto, l’attuale sistema di finanziamento lo consente, creando opportunità di espansione. Nel settore stazionario, con la pianificazione ospedaliera si sta andando verso una progressiva stabilità, seppur non ottimale, che permette di incidere sui costi. Nel campo ambulatoriale non esiste una regolamentazione altrettanto efficace. L’aumento dell’offerta in questo ambito porta a un aumento dei costi, e questo è un aspetto che va considerato. È giusto sollevare la questione e non nascondersi. Non credo che le soluzioni semplicistiche siano la risposta, perché dietro alla medicina ci sono investimenti, persone e molta qualità in tutti i settori. Tuttavia, è necessaria una regolamentazione più efficace del mercato, quindi la possibilità di intervenire anche nel settore ambulatoriale, per evitare che prevalga, come succede spesso, la parte speculativa. La nuova ripartizione dei costi a livello ambulatoriale aiuterà a migliorare la gestione dell’offerta ma non sarà sicuramente la panacea. La medicina deve rimanere focalizzata sulla cura, e questa deve essere la priorità, anche a livello politico».