«Ma ve la immaginate una Svizzera senza Aletsch?»

Per l’UNESCO il 2025 è l’Anno internazionale della protezione dei ghiacciai. Il 21 marzo, ovvero domani, verrà celebrata proprio la prima Giornata mondiale dei ghiacciai. Per l’occasione, il festival diffuso L’Uomo e il Clima ospiterà a Paradiso un incontro con il chimico François Burgay, il cui lavoro di ricerca si concentra sulla memoria contenuta da questi giganti fragili.
François Burgay, ispirandomi alle sue ricerche, ma anche a un noto film d’animazione, possiamo quindi dire che “il ghiaccio ha memoria”?
«Certo! Nell’immaginario comune si pensa al ghiaccio come un qualcosa di puro, costituito soltanto da molecole d’acqua. In realtà il ghiaccio è molto di più. Al suo interno noi possiamo trovare molte informazioni, scritte nell’alfabeto della chimica, che ci raccontano della storia climatica e ambientale del nostro pianeta».
Più nel dettaglio, che cosa esattamente raccontano i ghiacciai del nostro mondo? Ma anche: che cosa dicono di noi?
«Per scoprire cosa ci raccontano i ghiacciai occorre per prima cosa estrarre le cosiddette “carote di ghiaccio”, vale a dire dei cilindri prelevati dai ghiacciai che preservano al loro interno l’informazione chimica di cui raccontavo prima. Queste carote, a seconda dei ghiacciai in cui vengono prelevate, ci possono raccontare storie differenti. Ad esempio, le carote polari, come quelle estratte in Antartide, ci hanno permesso di ricostruire la concentrazione di gas climalteranti come anidride carbonica e metano negli ultimi 800.000 anni. Invece, le carote prelevate sulle nostre Alpi ci raccontano, tra le altre cose, la storia dell’industrializzazione in Europa e l’impatto che le attività antropiche hanno avuto sull’ambiente».
Ora tutto ci dice che stiamo perdendo questa memoria, almeno in gran parte. A che cosa possiamo aggrapparci per far sì che i ghiacciai non soccombano nel silenzio generale?
«La perdita dei nostri ghiacciai, per come noi li vediamo oggi, è purtroppo inevitabile. Anche se smettessimo adesso di emettere a livello globale gas climalteranti in atmosfera, la superficie dei ghiacciai alpini continuerebbe a restringersi del 30% circa entro la fine di questo secolo rispetto al 2017. Detto questo, di quanto questi ghiacciai si ridurranno ulteriormente è nelle nostre mani. A seconda di quanto aumenteranno le temperature entro la fine del secolo, che dipende da quanto saremo bravi e rapidi a ridurre le nostre emissioni di CO2, abbiamo due scenari. Qualora riuscissimo a limitare l’aumento medio globale delle temperature entro i 2°C rispetto al periodo pre-industriale, avremo una catena alpina con ancora un 25-40% della superficie dei ghiacciai rispetto al 2017. Se falliremo, rischieremo di perdere fino al 95% dell’intera superficie glaciale alpina. Quindi, in uno scenario di riscaldamento in cui l’aumento medio globale delle temperature sarà di 4°C rispetto al periodo pre-industriale, avremmo delle Alpi virtualmente senza più ghiaccio. Procedere rapidamente nella direzione della decarbonizzazione ci permetterà di salvaguardare una frazione significativa dei ghiacciai europei. E con loro, i paesaggi che ci regalano ogni volta che andiamo ad ammirarli».
Secondo lei, tra la popolazione, c’è la percezione di questo rischio?
«Credo di sì, anche perché oramai penso che chiunque oggi abbia visto i confronti fotografici che mostrano il ritiro dei ghiacciai. Quello che temo è l’effetto “assuefazione” e cioè temo che queste foto si trasformino nelle “ennesime foto dell’arretramento dei ghiacciai”. È un rischio che non possiamo permetterci perché il ritiro dei ghiacciai è forse il modo più efficace di mostrare gli effetti del cambiamento climatico sull’ambiente. Occorre però una riflessione su come usare questo strumento potentissimo affinché mantenga inalterata la sua efficacia di sensibilizzazione».
Ecco, può ricordarci quali sono i rischi di un mondo senza i suoi ghiacci?
«Oltre a essere una riserva d’acqua dolce, i ghiacciai hanno un ruolo fondamentale nella regolazione del clima terrestre. Essendo bianchi, riflettono la luce solare ed evitano che questa venga assorbita dalla superficie terrestre e riemessa sotto forma di calore. Con la loro fusione, i ghiacciai scoprono maggiori superfici scure che anziché riflettere la radiazione solare, la assorbono per poi riemetterla sotto forma di calore. Senza il ghiaccio, quindi, il nostro pianeta perde una componente fondamentale per la sua termoregolazione, e tanto più ghiaccio si fonde, tanto più calore verrà assorbito. A sua volta, questo determinerà un’ulteriore fusione del ghiaccio, instaurando un pericoloso circolo vizioso, o “feedback”. Perdere questa funzione termoregolatrice non è un problema per il nostro pianeta: 50 milioni di anni fa la Terra era priva di ghiacci e la concentrazione di CO2 era superiore alle 1000 ppm (oggi siamo a 423 ppm). Il problema è nostro: non siamo biologicamente adatti a vivere al di sopra di certe temperature e l’amplificazione del riscaldamento globale data dall’arretramento dei ghiacciai può portare presto a rendere invivibile un numero sempre maggiore di luoghi. L’invivibilità, però, non riguarda solo l’aumento delle temperature. La fusione dei ghiacci porta anche a un aumento del livello dei mari. Cinquanta milioni di anni fa il livello dei mari era di circa 70 metri più alto rispetto a oggi. Ora, non torneremo a quei livelli, ma basti pensare che anche solo poche decine di centimetri di innalzamento medio del livello dei mari, possono determinare l’inabitabilità di aree oggi popolate da milioni di persone: 8 tra le 10 città più popolose al mondo si trovano sulla costa».


Studiare la memoria dei ghiacciai, e quindi del clima, è utile anche in prospettiva. Per esempio lei che cosa ha imparato del nostro futuro? Qual è la cosa che più di ogni altra l’ha sorpresa, o colpita?
«Studiare il passato attraverso le carote di ghiaccio, mi ha dato fiducia nella capacità dell’essere umano di risolvere problemi. Lo dimostrano le carote di ghiaccio europee che, a partire dagli anni ’70-80, ci indicano che l’inquinamento atmosferico da diossido di zolfo e da metalli pesanti come cadmio e piombo, è diminuito fortemente. In poche parole, l’aria che respiriamo oggi nell’Europa Occidentale è notevolmente più salubre rispetto a quella che respiravamo 50 anni fa. È una storia di successo e deve darci la giusta spinta per affrontare con la stessa determinazione la sfida, ben più complessa e difficile da risolvere, della decarbonizzazione».
Lei è uno scienziato. Visto il messaggio che comunica si sente in qualche modo anche attivista?
«Non mi considero un attivista e credo che attivisti e scienziati abbiano due ruoli molto diversi. Lo scienziato e il divulgatore hanno il compito di mostrare e rendere comprensibili determinati fenomeni o problemi all’opinione pubblica, affinché questa possa prenderne consapevolezza. Talvolta lo scienziato può anche suggerire delle soluzioni. L’attivista, secondo me, ha invece il ruolo di fare da cassa di risonanza e mobilitare le persone affinché questi problemi acquistino rilevanza nel dibattito pubblico. È una figura fondamentale. Pensiamo all’impatto che i Fridays for Future promossi da Greta Thunberg hanno avuto nel rendere finalmente mainstream il tema del cambiamento climatico. Tuttavia non credo che gli attivisti abbiano la responsabilità di trovare soluzioni ai problemi che evidenziano. Per questo c’è (o ci dovrebbe essere) la politica, debitamente supportata dalla scienza».
L’UNESCO, tra le iniziative per l’Anno internazionale della protezione dei ghiacciai, pone l’accento sull’educazione e sulle giovani generazioni. Nota tra i giovani che si affacciano alla ricerca una diversa urgenza, una diversa cultura, rispetto a quelle che ha conosciuto quando a sua volta era studente?
«Sicuramente c’è un maggiore interesse alle tematiche ambientali e climatiche. Quando ero studente, il tema del cambiamento climatico era piuttosto di nicchia e non veniva insegnato nei corsi universitari. Adesso non lo è più e sono tantissimi i corsi universitari che hanno insegnamenti legati al clima. Si stanno inoltre sviluppando e rafforzando anche altri aspetti associati al tema del cambiamento climatico, come ad esempio quello della giustizia climatica. Una disciplina che è sempre esistita, ma che solo recentemente sta acquisendo un ruolo sempre più cruciale. In generale, oggi il cambiamento climatico può essere affrontato in una moltitudine di approcci diversi e questo dà la possibilità ai giovani di avvicinarsi al tema con sensibilità differenti».
Sempre l’UNESCO per la giornata mondiale del 21 marzo parla dei ghiacciai come dei “guardiani del futuro della Terra”. Ma di fronte alla minaccia del loro scioglimento diventiamo noi stessi guardiani del loro futuro. Che cosa possiamo fare, quindi?
«L’unico modo per rallentare la fusione dei ghiacciai è attraverso la decarbonizzazione, e credo che il primo passo da fare sia quello di prendere consapevolezza che questo ha un costo. Il costo della decarbonizzazione sarebbe comunque infinitamente inferiore rispetto a quello che dovremmo pagare tra dieci o venti anni se decidessimo di non agire oggi. Indubbiamente si tratta di una sfida difficile, soprattutto per via della sua dimensione globale, ma pensiamo a tutto quello che potremmo guadagnarci se la vincessimo: un pianeta più pulito, un ambiente più salubre, ma soprattutto più bello. Ma ve la immaginate una Svizzera senza l’Aletschgletscher?».