Maccio Capatonda: «I fenomeni virali ci saranno sempre, ma costruire una carriera è ben altra cosa»
Maccio Capatonda, nome d’arte di Marcello Macchia, è nato nel 1978 in Abruzzo. Diventato famoso grazie ai suoi esilaranti finti trailer e sketch comici su «Mai Dire» della Gialappa’s Band, ha poi ampliato i propri confini come regista, attore e sceneggiatore, portando in TV e al cinema il suo umorismo surreale con film come «Italiano Medio», la serie «Mario» o «Il migliore dei mondi». Lo stile unico, le parodie e i trailer finti l’hanno reso un volto cult della comicità italiana. Ospite del Festival Endorfine, il Corriere del Ticino l’ha intervistato
Maccio, da oltre vent'anni sei sulla cresta
dell'onda. Quale il segreto per non ripetersi?
«Sono convinto che
seguire la propria naturale evoluzione, cercando di non accontentare i gusti
del pubblico, ma anzi di appagare la propria spontaneità e seguire il proprio
istinto sia fondamentale. È necessario essere sempre molto traspirante nei
confronti della realtà, spugnoso. In soldoni: sono un assorbente».
Hai parlato di realtà, come si è evoluta quella della comicità italiana in questi vent'anni?
«Eh, questa è una
domanda da fare a un sociologo, a uno studioso. Mi rendo conto che il boom del
digitale ha dato la possibilità a tantissime persone di emergere sui social e di
esprimere una comicità molto più veloce, più istantanea. Un esempio? I
tiktoker: la loro comicità è fatta di pillole velocissime. Sostanzialmente non
diversa da ciò che facevo io con la Gialappa’s, è come se fossi stato un po' il
precursore di questo mondo. Sin da piccolo ho sempre sognato di fare comicità "digitale", registrando i primi video a 9 anni. L’obbiettivo era crearmi la
mia bolla, una zona di confort e come me molti nerd degli anni Ottanta sognavano
questa bolla tecnologica. Beh, ce l’abbiamo fatta».
Dunque grazie alle piattaforme social è più
facile arrivare al successo?
«Le strade per
arrivare al successo ad oggi sono tantissime, è vero. C'è però anche una maggiore competizione. A dirla tutta i
social, da questo punto di vista, sono molto meritocratici: per persistere nel
tempo, per creare qualcosa di bello e duraturo bisogna essere validi, avere
qualcosa da dire sul lungo periodo è imprescindibile. I fenomeni virali ci sono
e sempre ci saranno, ma costruire una carriera è ben altra cosa».
Nel tuo ultimo film, «Il migliore dei mondi», il
protagonista torna negli anni Novanta con le conoscenze, in campo tecnologico, del
2023. Se succedesse davvero, saresti in grado di replicare il successo che hai
ottenuto?
«Indubbiamente un
ventenne ad oggi ha tantissime possibilità, più speranze, rispetto agli anni della mia adolescenza. Nel mio caso però, complice il fatto di
essere una persona estremamente pigra, sentirmi dire che per nessuna ragione al
mondo avrei potuto fare il comico nella vita, mi ha spronato. Era una sfida. Se
invece avessi visto il traguardo potenzialmente raggiungibile avrei desistito».
La triade Frassica-Capatonda-Lundini definisce
le tre epoche della comicità nonsense
italiana, sei d’accordo?
«Sono abbastanza d'accordo, sperando di essere
tutti e tre ancora molto presenti. Frassica lo sento un po' come un mio
maestro: è riuscito a mettere anche una parte comica in «Don Matteo», è un
grandissimo. Ma anche personaggi come Verdone, Guzzanti, Troisi, per non
parlare della comicità demenziale americana, su tutti Woody Allen, mi hanno
plasmato. La comicità non muore mai, soprattutto quella nonsense: fin quando ci sarà senso nella vita ci sarà sempre un non
senso che funziona. Forse il problema odierno è che nel mondo, nel nostro
quotidiano, tutto sta perdendo di senso. E questa cosa mette in difficoltà noi
comici che facciamo del nonsense. Dovremo fare cose molto sensate… ma
ultimamente mi sto portando avanti».