L'analisi

Mafie e riciclaggio in Svizzera: «Il pericolo sono le criptovalute»

Gli enormi capitali generati dal traffico di stupefacenti con il Centro e il Sudamerica sono dirottati sulle monete virtuali - Paolo Bernasconi: «Il nostro Paese non ha ancora ratificato i Protocolli addizionali della Convenzione di Budapest sulla criminalità informatica» - Regole dell’informazione da rivedere
©Chiara Zocchetti
Dario Campione
01.03.2025 06:00

I tre arresti scattati mercoledì scorso nell’àmbito di due inchieste su mafia e riciclaggio, una condotta dalla Procura di Brescia e l’altra dal Ministero pubblico della Confederazione (MPC), hanno portato nuovamente in superficie la carsica discussione sulla presenza in Svizzera, e in particolare in Ticino, di cosche o di singoli esponenti della criminalità organizzata italiana.

Le mafie del Sud ci sono. E agiscono sul nostro territorio. In forme quasi sempre legali o paralegali. Grazie soprattutto alla compiacenza o al vero e proprio sostegno di alcuni colletti bianchi. Il loro pericolo è reale, concreto. Nulla, però, di paragonabile a quanto sta accadendo in Olanda, in Francia, in Germania o in Belgio, dove le strade adiacenti ai grandi porti di Rotterdam, Marsiglia, Amburgo o Anversa sono ormai diventate l’anticamera dell’inferno, con sparatorie quotidiane e guerre tra le bande e i cartelli che organizzano e gestiscono il traffico di stupefacenti proveniente dal Centro e dal Sudamerica.

Vigilanza necessaria

«Le mafie italiane non hanno interesse a controllare il territorio in Svizzera, e non avrebbero nemmeno la forza di farlo. Utilizzano il nostro Paese soltanto per il riciclaggio o come rifugio», dice al Corriere del Ticino Paolo Bernasconi, avvocato, in passato procuratore pubblico del Sottoceneri, titolare di alcune grandi inchieste su Cosa Nostra e osservatore delle infiltrazioni attuali e dei loro fiancheggiatori. Alcuni dei quali, spiega Bernasconi, «assieme ad amministratori di società hanno appena ricevuto il permesso di dimora. Vigilare su ’ndrangheta e camorra è quindi necessario, e andrebbe forse fatto con maggiore attenzione. Ma i sequestri di centinaia di tonnellate di cocaina avvengono a Nord senza che si riesca a bloccare i profitti giganteschi delle organizzazioni criminali».

Olanda e Belgio, Paesi una volta considerati tranquilli, «sono sempre più devastati dalle sparatorie tra narcotrafficanti - dice ancora Bernasconi - La massa di denaro di cui questi cartelli dispongono, gestita in modo aziendale, permette loro di controllare tutta la filiera della droga, dalla produzione al commercio al dettaglio, e di mantenere al proprio servizio gruppi armati sia in America Latina sia in Europa». Tutti questi soldi si incanalano poi nell’economia legale soprattutto attraverso le zone grigie della finanza, il cosiddetto Finanzunterwelt».

Criptovalute e “banche cinesi” (gli sportelli illegali attraverso i quali transitano ingenti quantitativi di cash, ndr) sono i punti deboli di un sistema che le autorità inquirenti europee e svizzere dovrebbero aggredire in modo più deciso.

«Lo sviluppo, in particolare, delle criptovalute ha riportato alla casella zero la battaglia contro il riciclaggio del provento di reati», sottolinea Bernasconi. Che, in relazione al caso elvetico, evidenzia come il nostro Paese non abbia tuttora ratificato «né il primo né il secondo» Protocollo addizionale della Convenzione di Budapest sulla criminalità informatica, adottata dal Consiglio d’Europa il 23 novembre 2001 ed entrata in vigore tre anni dopo, il 1º luglio 2004. «La Convenzione di Budapest è stata ratificata anche dalla Svizzera, non così i due aggiornamenti, resi necessari dall’evoluzione della criminalità informatica - spiega Bernasconi - Il secondo Protocollo addizionale, adottato il 12 maggio 2022, ha per esempio introdotto nuove disposizioni per il rafforzamento della cooperazione internazionale e l’accesso ai dati elettronici da parte delle autorità investigative. Ma a causa dell’opposizione, in primo luogo dell’UDC, il Consiglio federale non ne ha ancora chiesto al Parlamento la ratifica, rendendo ovviamente molto difficile, per la nostra autorità giudiziaria, intervenire in maniera rapida ed efficace per bloccare truffe informatiche ancora in corso».

Basti pensare, esemplifica l’ex procuratore pubblico luganese, «alla possibilità per gli inquirenti di ottenere dati elettronici dai fornitori di servizi situati in altre giurisdizioni senza dover ricorrere a lunghe procedure di cooperazione legale internazionale. Meccanismo indispensabile in un mondo virtuale che si muove e cambia, letteralmente, alla velocità della luce».

La mancata ratifica dei Protocolli aggiuntivi della Convenzione di Budapest rimanda indirettamente, riflette ancora Bernasconi, alla «questione più ampia dell’informazione e della consapevolezza della pubblica opinione. Purtroppo, i primi a negare strumenti e risorse qualificate per la lotta alle mafie sono i politici, passivi di fronte ai ritardi delle indagini. Le zone più vulnerabili nel contrasto ai grandi cartelli criminali e alle cosche sono quelle bancarie e parabancarie e, come detto prima, le criptovalute. Se il Parlamento decide di non affrontare tali questioni quando pure ne avrebbe il dovere, non sollecita i media a farlo e innesca così un cortocircuito».

Anche le regole del sistema dell’informazione non aiutano. «I ministeri pubblici - osserva Bernasconi - sono autorizzati a stilare comunicati stampa, ma quasi sempre si tratta di informazioni scarne. Fare i nomi non è essenziale, perché tanto si possono spesso facilmente leggere sulla stampa italiana. Ma si potrebbero spiegare i meccanismi del riciclaggio, dire come le persone coinvolte hanno operato, quali sono i dispositivi criminosi messi in atto. Sarebbe importante. Non soltanto per una maggiore trasparenza, ma anche per aiutare i settori maggiormente esposti a riconoscere il rischio e, magari, a prevenirlo».

Polizia giudiziaria federale, servirebbe il triplo degli effettivi 

«La mancanza di risorse investigative comporta che le attività criminali non vengano riconosciute, perseguite e indagate, né tantomeno condannate in sede giudiziale. Ciò mette a repentaglio la sicurezza in Svizzera nel breve e medio termine, e può potenzialmente trasformare il Paese in un rifugio per i criminali».

Le conclusioni del rapporto ispettivo dell’Autorità di Vigilanza sul Ministero pubblico della Confederazione, pubblicate mercoledì scorso sul sito dell’amministrazione federale, scoprono improvvisamente uno dei nervi sensibili dell’attività giudiziaria elvetica. Compromessa, in questo momento, soprattutto da un numero insufficiente di agenti e funzionari di Polizia giudiziaria federale (PGF). Una situazione che l’Autorità di vigilanza giudica inaccettabile, e sulla quale - dice - la politica dovrebbe agire al più presto.

«Nella sua ispezione - si legge nel rapporto - l’Autorità di vigilanza ha individuato una carenza di personale investigativo nella Polizia giudiziaria federale. Il delicato settore “Organizzazioni criminali” (ambito nel quale si combattono le strutture mafiose, ndr) è particolarmente colpito dalla mancanza di risorse. Il Ministero pubblico della Confederazione, con un maggiore supporto, potrebbe aprire un numero decisamente maggiore di procedimenti penali contro le organizzazioni criminali rispetto a quanto è possibile fare adesso». Inoltre, «le risorse disponibili per le indagini nell’àmbito della “Criminalità economica” sono regolarmente dirottate verso altri settori investigativi, dove servono con maggiore urgenza. Questo fa sì che la Polizia giudiziaria federale dia scarsa priorità alla criminalità economica e che i procedimenti tendano ad allungarsi».

La Polizia giudiziaria federale non è soggetta all’Autorità di vigilanza del Ministero pubblico della Confederazione, si legge chiaramente nel rapporto. Ma questo non ha impedito alla stessa Autorità di sottolineare come la PGF dovrebbe «essere sufficientemente dotata di personale. In alcuni ambiti di reato», addirittura, «il numero degli inquirenti federali che lavorano per la PGF dovrebbe essere da due a tre volte superiore».

Non servono soltanto più uomini e donne in divisa. C’è bisogno di «inquirenti federali in possesso di competenze specialistiche adeguate» oltre a quelle tradizionali di polizia: «conoscenze linguistiche, capacità redazionali, competenze informatiche, finanziarie, culturali. Se il lavoro investigativo rispondesse di più ai requisiti qualitativi, grazie al miglioramento nella produzione delle prove verrebbero portati più casi dinanzi al Tribunale penale federale».

Tra il Ministero pubblico della Confederazione e la PGF andrebbero anche «armonizzati obiettivi e orientamenti - dice ancora l’Autorità di vigilanza - La creazione di un cybercommissariato dedicato da parte della PGF rappresenta un primo passo in questa direzione».

La situazione a Lugano

«Presso la sede di Lugano - scrive ancora l’Autorità di vigilanza - il Ministero pubblico della Confederazione dispone di quattro procuratori pubblici». La PGF, invece, «ha a Lugano due commissariati: il commissariato Criminalità economica (con 7 inquirenti federali e una specialista di polizia) e il commissariato Protezione dello Stato e Organizzazioni criminali (9 inquirenti federali e uno specialista di polizia)».

Il paradosso è che nella «sede di Lugano, la PGF sarebbe in grado di occuparsi dei classici reati finanziari, ma il MPC non riuscirebbe ad avviare tutti i possibili procedimenti penali in lingua italiana riguardanti organizzazioni criminali e riciclaggio di denaro perché mancano inquirenti federali necessari per svolgere le indagini». E a Berna sarebbero peraltro «pochissimi gli inquirenti federali in grado di seguire i casi in lingua italiana».