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Mario Botta: l’Accademia di Mendrisio, un’avventura irripetibile

Nell’intervista al fondatore il consultivo di 25 anni di attività
Mendrisio, 23 giugno 2018 - Consegna diplomi all’Accademia di Architettura. © Chiara Zocchetti
Carlo Silini
12.06.2021 06:00

Un profilo unico e vincente, ma anche un’incredibile concatenazione di coincidenze: quasi un miracolo che dura da 25 anni. Così Mario Botta (nella foto archivio CdT sotto) spiega la nascita e lo sviluppo della scuola da lui fondata. Un’avventura che ha raccontato in un libro (Accademia di Architettura a Mendrisio. 1996-2021, ed. Electa). Lo abbiamo incontrato

«Sono uscito dalla scuola due anni fa - esordisce - e mi sembrava giusto fare un punto alla situazione e di ricordare taluni fatti di come è nata. È stata, per cominciare, un’avventura forse irripetibile».

Perché?

«Perché è nata da una condizione particolarmente favorevole, sul fronte politico, economico, sociale... che difficilmente è ripetibile nel prossimo futuro. Anche perché l’Accademia è nata un po’ per caso. Mi era stata domandata dal Consiglio federale, ma indirettamente dal professor Roland Crottaz una riflessione sull’insegnamento dell’architettura. Invece di toccare le due strutture principali che ci sono e hanno un loro background forte – Zurigo, in maniera tecnica razionale, Losanna in maniera più sociologica e attenta ai problemi della semantica – l’idea era di creare una nuova struttura che cercasse di rispondere ai problemi che erano in nuce. Noi siamo cresciuti con i problemi».

Cosa vuol dire?

«Significa che all’inizio l’unica cosa certa era che volevamo creare una scuola d’architettura di lingua italiana, rivolta alla cultura mediterranea, di tipo umanistico».

E i problemi che l’hanno fatta crescere a cui accennava prima?

«Sono quelli ecologici ed energetici che stanno dietro al costruire e sono cresciuti con noi. Quindi è una scuola curiosa. Senza falsa modestia, io ho tirato il carro, ma dietro c’è un fatto generazionale. Mi impressiona oggi vedere che con un telefono andavo a cercare Eladio Dieste in Uruguay che avevo incontrato per caso ed è venuto qui a testimoniare la sua esperienza. Idem con il compianto Mendes da Rocha – che quest’anno ha preso il Premio Pritzker. È incredibile che personalità di quella levatura, che non sapevano dov’era Mendrisio e ignoravano che fosse nata una nuova scuola d’architettura, arrivassero senza batter ciglio. Gli ospiti che abbiamo avuto rappresentano la storia dell’architettura contemporanea».

Come se lo spiega?

«Perché gli piaceva il profilo della nuova scuola, a cavallo della cultura tedesca e della cultura mediterranea. Anche i nomi degli studenti, oltre duemila in vent’anni, attestano che questa scuola non è un fatto solo svizzero o ticinese: sono arrivati da 50 Paesi diversi. Il fenomeno di questa scuola nasce quindi da un’esigenza sentita dalla nostra generazione che ha avuto una cultura rinascimentale. Sono i temi che già si agitavano in Italia, suffragati dalla grande storia del canton Ticino».

La storia architettonica?

«La storia degli emigranti del canton Ticino. È almeno da mille anni, dai Maestri comacini in avanti, che la zona dei laghi va a costruire nel mondo intero. E questo, adesso, ritorna con gli interessi. È una storia antropologica più che architettonica. Tocca la storia di queste terre».

Qual è il fatto più significativo del suo consuntivo dei 25 anni della scuola?

«Secondo me è l’aver capito che noi non siamo soli – come pensava la Svizzera. Nell’ambito della scienza del costruire e della sensibilità maturata rispetto ai temi ambientali e all’umanizzazione del territorio, abbiamo una grande tradizione. E il fatto di essere a cavallo tra una cultura razionale, più matematica e rigorosa, e una più umanistica dell’Italia ci ha molto aiutato. Ne è venuto fuori il meglio».

Lei dice che l’Accademia è frutto di una catena di coincidenze positive, ma non credo di essere accusabile di piaggeria se dico che molto è legato anche alla sua persona, alla sua fama di architetto.

«Ma la mia persona non è nata dal caso. Sono stato apprendista da Tita Carloni, verso il quale nutro debiti di riconoscenza. Così come verso le generazioni che mi hanno preceduto, quella dei Brivio, e prima ancora dei Chiattone, che era compagno di Sant’Elia. Ho sentito il profumo del costruire come attività dell’uomo, antropologica. Ho fatto quel che ho potuto, ma non l’ho fatto da solo. Avevo dei fiancheggiatori».

Chi, in particolare?

«Lio Galfetti si è prestato subito, ad esempio. Ma devo accennare anche al piccolo comitato scientifico di persone molto significative, Pierluigi Nicolin, Werner Oechsiln e altri. Ci trovavamo nel mio studio a Lugano la domenica. La cosa è nata un po’ alla carbonara. Ma ho imparato che quando l’idea è giusta, si moltiplica. Penso al vecchio Alberto Sartoris, che aveva fatto tre volumi sull’architettura funzionale all’inizio del secolo scorso. Persone che tenevano moltissimo all’idea di questa nuova scuola che portava la centralità dell’uomo e vedeva al di là dei rapporti economici, funzionali e costruttivi. Un progetto in cui si sono riconosciuti molti amici lontani. Kenneth Frampton l’ho trovato in una giuria in America, gli ho proposto di insegnare a Mendrisio ed è stato qui tre o quattro anni, per esempio. Fondamentali sono stati anche gli apporti di Sergio Albeverio per spiegare la matematica come disciplina umanistica e di Albert Jacquard sull’ecologia umana. Ma potrei citare molti altri nomi importanti, come Carlo Bertelli, il grande studioso di Piero della Francesca e di Giotto e Leonardo Benevolo per il tema della città. Abbiamo avuto il meglio del mondo».

Mendrisio, 13 settembre 1986 - Inaugurazione  di una mostra  con Giuseppe Buffi, Mario Botta e Noseda.    © Archivio CdT
Mendrisio, 13 settembre 1986 - Inaugurazione di una mostra con Giuseppe Buffi, Mario Botta e Noseda. © Archivio CdT

Mettere in piedi un’accademia significa anche poter contare sulla politica.

«La figura importante da ricordare, qui, è quella di Buffi. Ricordo che quando nel febbraio del ’94 eravamo andati a presentare il progetto della scuola a Berna agli otto rettori delle università svizzere e non era facile convincerli della necessità di una nuova accademia. Il nostro approccio è partito dai Maestri comacini. Ricordo una seduta difficile a Berna, in cui riconoscevano che il progetto era valido, ma a un certo punto ci hanno chiesto quando avremmo voluto partire. Ci siamo guardati: ‘digli il mese di ottobre’. E lui lo disse. La risposta fu: ma di che anno? Di quest’anno. E pensare che noi non avevamo neanche una buca delle lettere... Buffi era stato chiarissimo. Aveva detto: guardate che siamo determinati a farlo. I rettori sogghignavano. Al centro del tavolo c’era una torta che valeva due miliardi distribuiti dalla Confederazione. E loro si vedevano una fettina anche piccola che sarebbe stata destinata a noi. Non è che fossero felici. Lui però ha avuto il coraggio e la chiarezza di affermare che il Ticino sarebbe partito con l’architettura. Noi la faremo, aveva detto, con o senza la Confederazione. Con o senza voi! Una furbizia da grande politico».

Uno degli stabili dell’Accademia di Architettura di Mendrisio  (© CdT Fiorenzo Maffi)
Uno degli stabili dell’Accademia di Architettura di Mendrisio (© CdT Fiorenzo Maffi)

L’Accademia promuove da un quarto di secolo il senso umanistico del vivere e dell’abitare. Ma il Ticino ha recepito il messaggio? È cresciuta la sensibilità sul territorio riguardo a questi temi?

«Dirò francamente che le idee sorrette dall’Accademia per adesso non hanno avuto nessuna applicazione pratica. Nemmeno Mendrisio è cambiata, anche se ci sono 800 studenti ogni giorno. Al massimo si è aperta una libreria. Ma per i cambiamenti profondi ci vogliono tempi lunghi. Non bisogna aspettare un riflesso immediato. Forse ci sarà se la scuola tiene».

C’è il rischio che non tenga?

«È una scuola giovane e quindi resta fragile. Noi abbiamo anche sbagliato alcune cose, ad esempio la scelta di alcuni professori, che poi magari restano cinque o dieci anni. Sono cose che si pagano. Questo però non toglie che è una buona scuola che ha individuato un buon profilo. Ha individuato il momento storico e l’ha adeguato. Il nostro successo è dovuto a un profilo che si è affermato mentre i profili delle due scuole a noi vicine, Milano e Zurigo, sono andate in difficoltà. La nostra idea era che per rispondere alla complessità della cultura del moderno per l’architetto sono più importanti le discipline umanistiche che quelle tecniche. In quel momento, per esempio a Zurigo, si stavano moltiplicando materie come la logistica, la matematica, i computer... Scuole prestigiose avevano inseguito le soluzioni, mentre noi siamo partiti dall’idea che una buona scuola non deve pensare alle soluzioni, deve porre i problemi».

E le soluzioni?

«Le soluzioni saranno poi le professioni, il mercato, il commercio a trovarle. Una scuola deve dare una fondazione strutturale. Le applicazioni arrivano dopo».