Mario Botta: «Le nuove terme ricuciranno il rapporto tra Baden e il fiume»
Manca poco, appena cinque giorni, e nel canton Argovia verranno inaugurate le nuove terme di Baden. Un progetto durato diversi anni che ha restituito alla cittadina il rapporto col proprio fiume, la Limmat, dando spazio a un intervento architettonico capace di dialogare col territorio e di ridisegnarlo. A firmarlo Mario Botta, che abbiamo intervistato.
Di cosa stiamo parlando, Mario Botta?
«Stiamo parlando delle terme di Baden. Come dice il nome, Baden è una città che da secoli, anzi da millenni, ha una grazia della Terra sfruttata fin dai tempi dei romani. Ci sono ancora oggi una trentina di sorgenti che portano acqua sulfurea alla temperatura di 47 gradi. Proprio per questo le nuove terme si chiameranno “47”, da pronunciarsi Fortyseven. L’acqua arriva libera ancora adesso e ci sono i bagni pubblici. Lì, in riva al fiume, si possono incontrare talvolta delle grandi tinozze dove le persone del quartiere si rilassano mentre salgono i vapori dell’acqua. Una tradizione che sussiste; durante i lavori del cantiere mi è capitato più volte di vedere questi cittadini e cittadine che poi mi invitassero: «Venga architetto a provare il piacere di quest’acqua...».
Le terme di Baden sono antichissime...
«Sì, si trovano su un’ansa della Limmat che esce da Zurigo e poi continua abbracciando la città. Abbiamo testimonianze del XV secolo scritte dall’umanista fiorentino Poggio Bracciolini. Sono stati eseguiti degli scavi archeologici che hanno permesso di verificare i resti descritti in quei testi. Poggio Bracciolini era un avventuriero molto conosciuto ai suoi tempi e grazie ai suoi scritti sappiamo che quello era un luogo piacevole e forse anche equivoco nel mezzo dell’Europa. L’aristocrazia europea lo frequentava con la scusa delle terme... (vedi scheda a destra pagina accanto)».
E poi?
«Oggi per la gestione delle nuove terme è subentrata la Fondazione Bad Zurzach che intende costruire anche una clinica di riabilitazione. Stiamo parlando di un’industria famigliare che ruota intorno all’ambiente delle cure cliniche. Ha deciso di realizzare anche delle residenze a lato delle nuove terme. Per le terme sono previste circa 350 mila visite all’anno, cioè mille al giorno, non elitarie ma di grande qualità. Queste, sono le tendenze in atto per le terme di oggi, a cui il gruppo Bad Zurzach ha aggiunto infrastrutture e servizi complementari all’attività dei bagni e wellness. Vi è anche una zona per nudisti. Il tutto è completato con attività accessorie e ristoranti di modo che gli utenti possano fermarsi tre o quattro ore».
Come descriverebbe le nuove terme da un punto di vista architettonico?
«Anzitutto devo dire che noi stiamo lavorando a questo progetto dal 2008. Vede qui?». Mario Botta indica una cartolina di Baden che la mostra così com’era tra il 1874 e il 1944. Sull’ansa della Limmat si vedono alberghi importanti.
«I bagni hanno suscitato grande interesse nella prima metà del Novecento, poi obsoleti sono stati demoliti negli anni Settanta. Il rapporto della città col fiume era di fatto negato da queste costruzioni. Poi, negli ultimi decenni ci sono stati diversi i concorsi di architettura che, purtroppo, non sono mai sfociati in soluzioni convincenti. Dopo questi tentativi e aver partecipato a uno studio di fattibilità, ho ricevuto un mandato con il quale ho formulato una proposta di ricucitura tra le varie componenti della città. Il nostro progetto ha ridato una fruizione diretta, con una passeggiata pedonale di oltre mezzo chilometro lungo l’argine sinistro del fiume. Un progetto architettonico che non proponeva grandi volumi singoli, ma che insisteva sull’articolazione delle differenti parti. Le terme, infatti, non hanno una forma precisa ma, partendo dal tessuto consolidato del centro storico, si aprono come una mano verso il fiume, dove le singole “dita” contengono attività particolari: gli spogliatoi, le piscine calde, quelle fredde, una zona verde... Tutta una serie di temi sviluppati lungo la passeggiata che costeggia la Limmat e che dà alla città una nuova configurazione. Insomma, restituisce a Baden la presenza del fiume».
In che modo?
«Bisogna premettere che in quel posto il fiume è molto largo con la presenza di dislivelli, sbalzi e un proprio fragore. La cosa più affascinante è che, dalle vasche delle terme, ora si può vedere sia la passeggiata che il fiume. Le vasche esterne non hanno parapetti e si può nuotare costeggiando il fiume che scorre a lato. Il valore architettonico urbanistico di questa situazione consiste proprio nel non aver costruito un edificio monolitico, ma nell’aver creato un’articolazione fra le parti della città. Dietro alle terme, ad esempio, c’è una piazza (Kurplatz) dove abbiamo riaperto una cortina edilizia e formato una scalinata che collega l’insieme storico del Verenahof con il fiume nella parte bassa. In altre parole, il progetto è servito a ricreare una serie di spazi pubblici che permette di offrire alla città la meraviglia dello scorrere del fiume. L’articolazione delle parti, soprattutto verso la Limmat, è la connotazione spaziale di questo intervento. All’interno delle differenti vasche termali vi è un rapporto visivo continuo con la ricchezza del fiume e la collina urbanizzata che sale sulla sponda opposta».
Cosa cambia rispetto alle terme del passato?
«Cultiver le corps et l’esprit era un’indicazione di Le Corbusier. Accanto alla predisposizione spaziale per un nuovo benessere all’interno delle differenti vasche, ci sono ora altri servizi (saune, bagni turchi e zone di sosta) con le “diavolerie” (proiezioni di immagini, colori, suoni, acqua gelata, acqua calda) che oggi si possono vivere contemporaneamente ai bagni. Una ricca varietà d’esperienze da offrire ai fruitori per godere al meglio di quest’acqua termale; articolazioni spaziali che creano nuove “palestre” pubbliche».
In conclusione?
«In conclusione, le nuove terme non si presentano come un edificio, ma una serie di percorsi all’interno e all’esterno che permettono di riavere un nuovo rapporto della città con il proprio fiume. È un’idea che sembra funzionare anche dal punto di vista economico, confermato dal fatto che i nuovi appartamenti costruiti a lato sono già tutti stati affittati: vivere in riva al fiume, con la ricchezza e la qualità che offrono le stagioni, risuona evidentemente come un grande privilegio. Un tentativo per far sì che l’architettura risponda alle attese e alle esigenze di un nuovo modo di vivere il privilegio e la bellezza di essere in città».
«L’URBANISTICA DEL FUTURO È QUELLA DELLA DEMOLIZIONE»
Mario Botta, passando dal caso particolare di a un discorso più ampio, la sua idea è quella di ricucire il rapporto con la città grazie a una buona architettura?
«Sì. Grazie a un’architettura che si offre per diventare urbanistica: non prendere gli indici di edificabilità dati dai piani regolatori solo per sfruttare il massimo possibile. In taluni contesti, l’architettura deve utilizzare meno di quello che l’indice permette. I piani regolatori sono indicazioni approssimative e da soli non possono interpretare l’orografia del territorio. Nel caso di Baden, gli indici sono stati definiti in base al progetto; se avessi utilizzato tutti gli indici disponibili, probabilmente l’ansa del fiume sarebbe stata incanalata fra due cortine edilizie, e si sarebbe persa l’opportunità di un nuovo rapporto tra la città e il fiume. L’opera di architettura deve risultare uno strumento per la costruzione di un nuovo paesaggio, deve fare crescere nella città il valore dello spazio abitativo».
Un criterio applicabile in Ticino?
«Certamente. Ogni edificio che facciamo deve soprattutto rispondere al contesto geografico e urbano di vicinato. Non a caso la legislazione svizzera protegge il diritto di ricorso dei vicini, non solo per permettere un controllo della legge, ma per cercare nuovi rapporti di buon vicinato. Se l’architettura non è attenta a questo aspetto, non compie il suo compito. L’architettura deve sempre rispondere alle esigenze del contesto, oggi soprattutto geografico. L’opera di architettura non è un oggetto o un singolo volume, ma è uno strumento di articolazione per la costruzione di uno spazio collettivo che lega le differenti parti per una migliore qualità della vita».
Noi viviamo tra i corsi d’acqua, ma in Ticino molti tratti dei nostri fiumi sono stati interrati.
«Oggi credo ci sia una maggiore coscienza critica a livello cantonale, ma questa coscienza dovrebbe diventare un sentimento collettivo. Nei decenni scorsi molti corsi d’acqua sono stati incanalati (dal Moré, al Laveggio, al Cassarate e a molti altri). La conquista della modernità ha pagato un prezzo altissimo rispetto ai corsi d’acqua naturali per costruire strade e infrastrutture. Oggi, però, mi sembra di assistere alla tendenza di recuperare i corsi d’acqua a cielo aperto, una nuova coscienza ambientale».
A proposito di strade, il Ticino è diventato invivibile. La viabilità è un problema primario.
«La mobilità rappresenta anche una conquista della nostra civiltà. È indubbio che spetta alla nostra generazione, dopo l’ubriacatura della società globalizzata, ristabilire un rapporto di equilibrio con gli elementi naturali; i rilievi verdi da un lato, i fossati, le vie d’acqua, le alture dall’altro. Un processo che dovrà correggere la viabilità come era prospettata alla fine del secolo scorso. La riscoperta di un nuovo equilibrio con la natura è oggi riconosciuta come condizione per una migliore qualità di vita. La mobilità dovrà trovare una possibile convivenza con il nostro territorio geografico stretto fra le valli. D’altronde noi abbiamo anche una legge, forse unica al mondo, con l’assoluto divieto di toccare il bosco, per noi sacro. Un felice diktat federale di grande saggezza, un baluardo istituzionale che, nello scorrere del tempo, si rivela importante, anche come contrappunto all’urbanizzazione richiesta dal vivere collettivo».
In che senso?
«Nel senso che il paesaggio non deve risuonare come una componente nostalgica, perché deve essere, come lo è stato in passato, modellato dall’uomo. Modellato talvolta con grandi fatiche per strappare pochi metri di terra fertile. La maggior parte dei nostri paesaggi trova la sua bellezza nel lavoro articolato e sapiente dell’uomo. Il paesaggio naturale e “selvaggio” è altro dalla condizione di prossimità che esige l’urbanizzazione, elemento di dialogo con il fatto architettonico. Il contesto è parte strutturale di un edificio, non può sfuggire al disegno dell’uomo. Non ha nessun senso costruire un palazzo isolato in mezzo a un prato. Nel caso di Baden, la passeggiata creata lungo il fiume, con le cascatelle della Limmat e la collina retrostante, diventano parte del progetto che arricchiscono la città. È bellissimo fruire anche da lontano, sull’altra sponda del fiume, il vivere della città sulla collina, un paesaggio vivo con una mobilità saggia (lenta), legittima che contrasta con l’assolutismo dispotico ideologico invocato in difesa dei beni culturali».
Si riferisce all’Heimatschutz, alla STAN e al contrasto tra la necessità di conservare i beni culturali e quella di innovare?
«Per permettere all’uomo e al paesaggio di vivere in armonia è necessaria una conservazione intelligente. Il paesaggio è una realtà viva, in mutamento continuo (basti pensare all’immagine della vegetazione) e quindi non può essere interpretato come una “cartolina”. Le trasformazioni corrette dovrebbero rendere il paesaggio urbano migliore. Nell’esempio di Baden, abbiamo immaginato una crescita di qualità dopo l’ubriacatura della società dei consumi. Le terme diventano servizi e ricchezza spaziale. Questa è stata la vera scommessa».
Si può decementificare il Ticino?
«L’urbanistica del futuro è destinata a diventare l’urbanistica della demolizione. Non per scelta ideologica, ma per una scelta economica. Una volta pensavamo che i nostri edifici fossero creati per durare cent’anni o di più, ma il ciclo di vita oramai si è ridotto. La cultura del moderno si è mostrata fragile; finito il ciclo economico e finanziario, pagato l’investimento, la costruzione non renderà più e richiederà d’essere demolita. Chi volete che conservi il Pian Scairolo tra trent’anni? Chi volete che ci vada ad abitare? Questi capannoni creati solo per i consumi spero proprio che siano destinati a scomparire».