Tra coronavirus e tradizione

Mario Botta: «Mendrisio senza Processioni ci parla della nostra fragilità»

A colloquio col celebre architetto nel giorno in cui avrebbe dovuto svolgersi la prima delle due processioni storiche da poco riconosciute patrimonio dell’umanità dall’UNESCO - GUARDA LE FOTO E IL VIDEO
Onoriamo la tradizione delle Processioni di Mendrisio proponendo - su suggerimento di Mario Botta - fotografie in bianco e nero per sottolineare una dimensione più riflessiva in tempo di pandemia. (© Massimo Moreni)
Carlo Silini
09.04.2020 10:28

Questa sera, la voce calda delle trombe che aprono il corteo non risuonerà nelle vie di Mendrisio. Proprio mentre le Processioni Storiche diventano patrimonio dell’UNESCO, il virus blocca tutto. Onoriamo questa secolare tradizione con una conversazione con Mario Botta sull’evento che sfuma e sul suo valore nei giorni della pandemia.

Chi in questi giorni si incammina nel nucleo di Mendrisio può sostare davanti ad alcuni trasparenti che sono stati appesi prima che scoppiasse la crisi sanitaria. I trasparenti, detto per inciso, sono dipinti originariamente imbevuti di cera e vernice che un tempo erano illuminati dalla luce delle candele e venivano montati su strutture di legno disseminate lungo il borgo nella settimana santa. Da secoli illustrano le scene salienti della Passione di Cristo o qualche scena apocrifa dedicata a Maria, protettrice dei frati Serviti, iniziatori nel Seicento delle Processioni religiose di Mendrisio del Giovedì e del Venerdì santo. I trasparenti che vediamo tra una casa e l’atra in questi giorni sono l’unico segno osservabile di un evento che non avverrà. Un doppio dolore per i mendrisiensi, perché proprio pochi mesi fa le Processioni sono diventate patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO.

Mario Botta, che cosa prova di fronte alle tracce di qualcosa che non ci sarà?

«Un sentimento di smarrimento, o meglio di fragilità. La fragilità del nostro essere. Per mesi o per anni si preparano eventi, si programma tutto, e poi un granello di sabbia basta per bloccare ogni cosa. Vuol dire che anche la nostra generazione, che è andata sulla Luna, può arrestarsi di fronte a un nonnulla, anzi, di fronte a un elemento che era inimmaginabile in precedenza».

Dentro le Processioni c’è un bisogno di memoria, un bisogno che le persone hanno di ricuperare il passato come parte della nostra identità

Che cosa rappresenta per lei una tradizione vivente come le Processioni Storiche?

«Le processioni ci sono sempre state. La comunità ha sempre avuto il bisogno di celebrare non solo individualmente ma collettivamente. L’uomo è un animale sociale e da questo punto di vista, tutti i riti hanno uno sviluppo e una testimonianza collettiva. Dietro le Processioni c’è l’idea di riportare all’attualità qualcosa che è molto lontano, ma nello stesso tempo ci appartiene. Dentro le Processioni c’è un bisogno di memoria, un bisogno che le persone hanno di ricuperare il passato come parte della nostra identità. In questo caso una lunga tradizione che riporta il dramma cristiano nelle forme sia culturali che folkloristiche dei secoli passati. Stiamo recitando qualcosa che hanno sentito anche i nostri progenitori».

Che cosa hanno da dirci in un momento come questo?

«Ci parlano di un bisogno di religiosità, di ricuperare una serie di valori che non sono strettamente legati all’attualità del vivere, ma che fanno parte della nostra cultura. Indirettamente - e molte volte inconsapevolmente - stiamo testimoniando una parte della nostra identità. Abbiamo bisogno di risentirci parte di una storia cristiana, molto profonda, dove la cultura europea è molto ben rappresentata e quella mediterranea ancora di più».

In modo più specifico, cosa ci dicono le Processioni, oggi?

«Parlano della Gerusalemme celeste. Chi non poteva andare a Gerusalemme riproponeva dal Seicento in avanti i Sacri Monti, col Calvario e la vicenda di Cristo come testimonianza della propria fede».

Qual è, fra gli oggetti processionali, quello che le parla di più?

«Ho partecipato fin da bambino come osservatore alle Processioni di Mendrisio. La Processione è in se stessa un unicum. È come una collana: ogni sua parte concorre a fare il tutto. È una catena da cui non puoi sciogliere un anello. È difficilissimo selezionare un personaggio o un’emergenza. Sia la presenza aneddotica, sia l’elemento più aulico fanno parte di questo insieme».

Ma dovendo sceglierne uno?

«Direi il Cristo orizzontale (nella foto Archivio CdT sopra). Nella Processione di Mendrisio sfilano tutti in verticale: i cavalli, cavalieri, le comparse, tutti... ma a un certo momento avviene il passaggio silenzioso e illuminato con dei fari del Cristo orizzontale. È una presenza anomala, perché dev’essere portata e dà una chiave di lettura diversa al tutto. Non lo vedi come un personaggio che passa, ma lo devi seguire, perfettamente orizzontale: è il Cristo morto che c’è nella chiesa di San Giovanni e viene portato in Processione il Venerdì Santo».

La Processione non è fatta solo dai personaggi, si completa in quanto c’è uno spazio. Vi è un itinerario, un tracciato dell’itinerario, che si svolge all’interno della città. Protagonista è il borgo

Lei è uno specialista di edifici sacri. Nel caso di una processione, tuttavia, non sono gli edifici in sé ad essere sacri, ma quello che avviene tra gli edifici. Lo spazio sacro è dilatabile al contesto profano?

«Lo è. Perché la Processione non è fatta solo dai personaggi, si completa in quanto c’è uno spazio. Vi è un itinerario, un tracciato dell’itinerario, che si svolge all’interno della città. Protagonista è il borgo, non i personaggi. La città esprime la sua compiutezza. La Processione parte dalla chiesa di San Giovanni, attraversa il borgo, sosta alla chiesa principale, si spinge fino alla chiesa dei Cappuccini e poi torna a San Giovanni. Gli itinerari disegnano la città, danno una compiutezza e una misura del borgo. Come nei Sacri Monti».

Cioè?

«I Sacri Monti diffusi nelle Prealpi, come le Processioni di Mendrisio, rinnovano la passione di Cristo e il sogno della Gerusalemme celeste sulla Terra. Con gli studenti, all’interno dell’Accademia di architettura, ho studiato il Sacro Monte di Varese, ma si potrebbe pensare anche a quello di Varallo. Sono spazi straordinari perché lo spazio, ancor più del sistema processionale, diventa importante. Le cappelle sono poste in una posizione strategica dove cambia la direzione del percorso. Tra cappella e cappella, la misura è data dal tempo della recita di un rosario. Perciò, quando il percorso è in salita le cappelle sono più vicine e quando è sul piano sono più lontane. Sono un rosario costruito, un rosario che si fa trama di paesaggio. Un paesaggio minerale, in parte in salita, con gli scalini, in parte no, che trova i suoi punti di riferimento nelle cappelle. Se studi i loro percorsi non capisci fino a dove c’è il manufatto dell’uomo e dove comincia il paesaggio della natura. Sono percorsi fatti a misura di preghiera. Lo spazio che misura il tempo di preghiera si trova anche nelle Processioni di Mendrisio, sciolto nel suburbio del borgo e scandito dalle chiese e dai trasparenti».

Molto di più di un intrattenimento folkloristico, insomma.

«Le guardiamo in maniera disinvolta, ma sono la misura della collettività, la misura del borgo. Oltre alla partecipazione che è molto sentita a Mendrisio, è una forma di misura della città. Una forma di pellegrinaggio silenzioso nei punti cardine della città. Cosa che la città contemporanea ha perso, perché la città contemporanea è fatta da strade, viali e dai palazzi dove entri e l’ascensore ti porta al tuo piano. La Processione ti fa riscoprire gli spazi di mediazione. Da ogni punto hai un’ottica del borgo diversa che la città non conosce. Perché non hai più il tempo di fruizione del passo dell’uomo, della sosta, del riposo e della ripresa. È una forma di conoscenza del proprio luogo, un modo di prendere possesso della città».

Come interpreta i trasparenti?

«I portali dei trasparenti non sono altro che le caricature di portali veri, che non potevano essere fatti in marmo, come nelle condizioni auliche. Si dipingevano scenografie che ricalcavano le condizioni auliche che nei paesi non potevano essere fatte. In un certo senso questi portali sono la ricchezza dei poveri».

Spero in una Primavera dello spirito dopo la paura e il silenzio di queste settimane. Per me avrà uno strascico e risuonerà come un grande monito rispetto al gran correre che abbiamo fatto prima, il gran correre della società dei consumi

Le strade di Mendrisio, nei giorni senza le processioni, saranno come la Piazza san Pietro vuota attraversata dal Papa venerdì 27 marzo?

«San Pietro quel giorno col Papa è un unicum che non può essere confrontato con una città vuota. Anche perché Mendrisio è Mendrisio. A San Pietro c’era un’eccezionalità data dalla grande ricchezza e cultura che i secoli avevano accumulato, lì c’era il primato di Pietro. Vedere quella piazza spoglia è impressionante, non era mai successo. San Pietro è la piazza gremita di pellegrini per antonomasia. Nel caso del Borgo di Mendrisio i portali dei trasparenti sono le caricature della ricchezza. In questo senso non va confrontato alla forza, alla suggestione e anche al mistero che ha portato Francesco di fronte a una piazza vuota. Con una San Pietro deserta e in mezzo un uomo vestito di bianco ha spiazzato tutti gli sceneggiatori del mondo».».

Le processioni celebrano il Giovedì e il Venerdì santo, giorni di dolore e di sacralità, con una promessa inespressa: la resurrezione. Come immagina la resurrezione dal coronavirus?

«È tutto da attendere. Spero in una Primavera dello spirito dopo la paura e il silenzio di queste settimane. Per me avrà uno strascico e risuonerà come un grande monito rispetto al gran correre che abbiamo fatto prima, il gran correre della società dei consumi, della globalizzazione. Forse ci permetterà di riscoprire la bellezza del dettaglio, del particolare, di uno sguardo e di un volto. È nella dimensione più intima che troveremo la forza di continuare dopo questa pausa, questa interruzione, questo iato che ci ha tolto da un sistema di vita che spero sia impossibile ripetere com’era prima».

Questo iato, riprendendo la sua immagine, essendo una Via Crucis, non assomiglia un po’ alle Processioni?

«Ci sono delle analogie forti: c’è il dolore, la perdita dei cari. E l’impotenza che misuriamo. Precedentemente non dico che potevamo fare tutto, ma conoscevamo le cure del male, mentre adesso siamo persi. Soprattutto perché non sappiamo come curaci. Siamo di fronte a un mistero, a qualcosa che sfugge alla cultura del moderno, della scienza, del risolvere i problemi».

La prova che stiamo attraversano rafforza o indebolisce la percezione di un dio e la necessità di una fede?

«Non posso rispondere. Ognuno lo deve fare per sé. Ma credo che tutti, chi in un modo chi nell’altro, hanno sentito la pochezza del vivere da un lato e dall’altro la sua grande ricchezza. Di fronte alla morte, di fronte a una foglia che cade, ti chiedi qual è il significato delll’esistere di quella foglia. Credo che questa sia una bella occasione per riflettere, ognuno nella propria cultura. Le differenti forme di spiritualità hanno creato nelle varie culture diverse ancore di rifugio, di salvezza e di speranza».

«PER ME È IMPOSSIBILE IL LAVORO REMOTO»

Il coronavirus ha effetti diretti e indiretti su ognuno di noi. Perfino sul mestiere di architetto. «So che il mio modo di lavorare – ci confida Mario Botta – il mio modo artigianale di rincorrere e di seguire la qualità di un progetto resterà l’obiettivo costante e ultimo. Ma le cose cambieranno perché cambiano gli strumenti. Da questo punto di vista mi sento sconfitto. Il mio modo di lavorare consiste nell’affrontare un problema per creazioni continue – da quella del piccolo artigiano al dettaglio in avanti - per far sì che anche il materiale più umile possa parlare e darti un’emozione. È la grande scuola che ho avuto attraverso Carlo Scarpa e la cultura umanistica italiana. Non dico che tutto questo scomparirà, ma avrà altri strumenti che al momento non so conoscere».

Il lavoro è in prossimità, comporta una correzione continua e il lavoro a distanza col computer non te lo può permettere. Quello è un lavoro pensato per una progettazione per cataloghi, per forme già definite

Il punto, spiega l’architetto, è il lavoro remoto. «Lavorare lontano per me è inconcepibile. Il lavoro è in prossimità, comporta una correzione continua e il lavoro a distanza col computer non te lo può permettere. Quello è un lavoro pensato per una progettazione per cataloghi, per forme già definite. L’idea è quella di fare una specie di collage a partire da elementi precostituiti. Non per caso le architetture contemporanee si assomigliano tutte, che siano nei Paesi nordici o in quelli arabi: posti dove il clima è totalmente diverso, ma il linguaggio architettonico , lo ripeto, è quello dei cataloghi, del precostituito. Il capitalismo e la cultura finanziaria moderna», osserva Mario Botta, «vogliono questi assemblaggi con forme di proprietà che non conosciamo più: i fondi di investimento che non hanno una proprietà, non hanno un volto e chiedono solo dei metri quadrati e una risposta tecnica funzionale. Il mio lavoro», conclude, «cerca invece una forma espressiva, poetica, che coinvolga il fruitore con delle emozioni».

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