Mascherine e altre limitazioni: basta con le dittature del bene

La libertà non gode di buona salute: le misure di confinamento limitano, tra le altre, la libertà di movimento, di lavoro, di scelta, ma anche di espressione: una censura sottile e diffusa soffoca le critiche, offendendo e deridendo chi osa avanzarle. Cercherò di enucleare alcuni elementi (eterni, ma di questi tempi molto attivi) che soffocano la libertà, visti dal punto di vista filosofico.

Vorrei intervenire da una prospettiva etico-filosofica, precisando il senso di alcuni elementi e principi etici. Non legati a un paese o a una legislazione. La mia non è una prospettiva locale ma universale e ha di mira il tema della libertà. La libertà gode di buona salute? No.
La libertà non gode di buona salute: le misure di confinamento limitano, tra le altre, la libertà di movimento, di lavoro, di scelta, ma anche di espressione: una censura sottile e diffusa soffoca le critiche, offendendo e deridendo chi osa avanzarle. I critici, bollati col pesantissimo appellativo di negazionisti, talvolta assimilati a neonazisti e sovranisti, non parlano, «strillano». Io mi sforzerò di non strillare ma di esporre educatamente cinque elementi che soffocano la libertà. Sempre, ma oggi più che mai.
Premessa
Prima di esporli vorrei enunciare una premessa. Essa dice che la salute, per quanto importante, non è un valore, né lo è la sicurezza. Salute e sicurezza sono da tenere in seria considerazione ma non sono valori, sono mezzi, sono strumenti per conseguire valori. I valori sono un’altra cosa, son dignità, libertà, autonomia della persona. Ha detto il presidente del Bundestag Wolfgang Scheuble, un disabile che vive in sedia a rotelle, il 26 aprile 2020: «Ma quando sento che tutto deve indietreggiare di fronte alla protezione della vita devo dire che questo, in tale assolutezza, non è giusto... se c’è nella nostra costituzione un valore assoluto, questo è la dignità. La dignità umana è intoccabile, ma non esclude che dobbiamo morire».
Spesso valutazioni di provenienza etico-filosofica o religiosa si trasferiscono nella legislazione: così la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea dichiara nel preambolo che «l’Unione si fonda sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; l’Unione si basa sui principi della democrazia e di stato di diritto». Dunque troviamo di nuovo, tra i valori indivisibili e universali, dignità e libertà, seguite da eguaglianza e solidarietà. Della salute non v’è menzione. Certo che essa è importante nella preservazione della società ma qualcuno gode del diritto di assumere poteri eccezionali, senza controlli e senza limiti, o anche soltanto poteri limitati ma pur sempre eccezionali, per garantire la sanità, non considerando la commensurabilità tra la situazione e gli interventi eccezionali?


1. Il paternalismo
È l’atteggiamento umiliante e offensivo per il cittadino di chi pretende di agire per il tuo bene perché conosce il tuo bene meglio di te. Ti considera un minore e come minore ti si rivolge. «Mettiamoci sempre la mascherina; in questo modo ci proteggeremo anche dal raffreddore e dall’influenza, e se prenderemo la COVID lo avremo in forma più blanda». Questa è un’espressione paternalista della serie «noi esperti lo facciamo per voi, per il vostro bene». Questa è un’offesa non soltanto per quello che la chiesa chiama il libero arbitrio, la libertà di scelta, ma anche e soprattutto per la posizione del liberalismo di uno dei suoi padri fondatori, John Locke. Locke scrisse i due Trattati sul governo proprio contro il Patriarca di Filmer, un saggio che aveva l’obiettivo di dare un fondamento religioso al potere del Re, a una concezione patriarcalistica e paternalistica della politica. L’opera di Locke invece teorizza il consenso di soggetti liberi e uguali come condizione per la legittimità del potere politico e pone la fiducia alla base del rapporto tra governanti e governati. Un manuale per l’obbedienza è il primo, mentre l’altra è un trattato sulla resistenza. Sulla resistenza a chi mi impone di non prendere il raffreddore se ho voglia di andare in giro senza ombrello sotto la pioggia. A chi mi impedisce di seguire liberamente la mia idea del bene per propormi la sua: di dittature del bene ne abbiamo abbastanza.


2. La paura
La paura può essere una buona guida, un buon equipaggiamento evolutivo per la sopravvivenza, però ha la caratteristica di ostacolare la riflessione e di spingere ad azioni affrettate (Aristotele). Ogni giorno le persone sono motivate, senza pensarci, dalla paura della morte, ma è essenziale per la nostra serenità che tale paura venga confinata nel retro della nostra mente (Epicuro, Lucrezio). La paura è inoltre narcisistica e pervasa dall’ansia, come la società in cui già vivevamo prima della pandemia. E anche se ci raccontiamo la favola bella della solidarietà, la paura in realtà ci allontana dagli altri. La paura rende le società democratiche vulnerabili alla manipolazione che insidia la libertà; porta a dar la colpa a individui e gruppi anziché a riflettere e capire le cose. La paura fa correre la gente al riparo alla ricerca del conforto del leader o di un gruppo omogeneo. Chi fa domande scomode si sente esposto e solo e capisce che preservare i valori democratici può provocare forti sofferenze. L’antidoto: fatti, dati, un dibattito pubblico informato e uno spirito di dissenso e di indipendenza da parte dei cittadini: il dissenso produce libertà mentale dalla paura.


3. La scelta del male minore
Qui partirò da un esempio: il bandire il DDT porta a un aumento delle morti per malaria. Per evitare un male, cado in un altro. O, come ben sintetizzò Hannah Arendt, coloro che scelgono il male minore si stanno dimenticando che scelgono in ogni caso un male. Sì, perché i governanti ripetono - senza saperlo - con Tommaso d’Aquino che «prevedere non è volere». Che cosa vuol dire questo principio, detto anche del «male minore»? Che nell’atto di prendere una decisione grave (nel nostro caso volere salvare le vite delle persone colpite o a rischio di COVID) si prevede che si procureranno danni gravissimi alle vite di moltissime altre persone, in particolare a bambini, donne, anziani. Lo si prevede ma lo si ignora perché l’effetto principale è salvare dall’epidemia. Per salvare dal male maggiore si sceglie il male minore. Minore? Chi decide quale è l’uno e quale l’altro? Per fare un esempio: si decide di sganciare l’atomica su Hiroshima, di cui prevediamo che provocherà la morte di centinaia di migliaia di civili, volendo ottenere la resa del Giappone. In etica questa si chiama Dottrina del Duplice Effetto: l’effetto voluto – l’unico che conta, la fine della guerra - e quello previsto. I meccanismi che regolano la violazione di alcuni diritti di libertà consentono alle forze di sicurezza di impegnarsi in forme di violenza extra-giuridica sono alcuni dei «mali minori» scelti al fine di evitare o limitare potenziali «mali maggiori»: leggi, il diffondersi del virus. Dunque le misure sono considerate non in relazione al male che producono ma a quello che prevengono. L’unico effetto che conta, dice chi segue tale principio, talvolta inconsapevolmente, è l’effetto voluto. L’effetto previsto, eh be’, non potevamo scamparlo. La storia ci assolverà. Glielo auguro. L’antidoto? La doppia etica di Max Weber. Essa dice che il governante eletto porta per definizione la responsabilità delle sue azioni e delle loro conseguenze. Egli dovrebbe affiancare all’etica dei principi (la Gesinnungsethik) l’etica della responsabilità (Verantwortungsethik) che prende in considerazione sia gli effetti voluti sia gli effetti previsti anche se non voluti.


4. L’ipocrisia del buonismo
Durante una trasmissione televisiva italiana nei mesi primaverili Massimo Cacciari a un certo punto, davanti alle affermazioni melliflue di quanto fosse bello e patriottico stare tutti chiusi in casa (magari avessero dovuto farlo tutti) sbottò: «Sì, stiamo in casa a tremare, non usciamo, facciamo i bravi ma non dite che tutto ciò è solidale e patriottico. Questo è una tortura, una tortura». Aveva perfettamente ragione. Quello che siamo costretti a fare è una tortura, lo possiamo accettare in nome della diminuzione della diffusione del contagio, ma per favore la si smetta con l’ipocrisia del come è bello come è solidale come siamo bravi. Una cosa è rispettare le misure di contenimento, un’altra è celebrarle con docilità (concetto che rimanda al punto 5). E qui citerei direttamente le parole del filosofo francese (una volta nouveau) Bernard-Henry Lévy quando scrive : «Che si accetti di rimanere a casa è una cosa, ma che si pretenda che è rimanendo a casa che ci si avvicina agli altri, che è ripiegandosi su se stessi che si è attenti alle miserie e alle sorti altrui, lascia vedere... una facilità di linguaggio e una facilità ideologica che mi sembrano estremamente gravi. Che si accetti di non stringersi più la mano è una cosa, che si dimentichi che la stretta di mano è un bel gesto di civiltà è un’altra». La stretta di mano introduce la dimensione alla pari, non più la struttura gerarchica di chi si inchina a un capo che lo guarda dall’alto. Che si accetti di distanziarsi è una cosa, che non si rimarchi che il contatto di pelle è essenziale nella formazione dei bambini piccoli e che privarsene è un grave danno che avrà gravissime conseguenze (che forse non sono «mali minori», come gravi saranno le conseguenze per bambini e ragazzi cui si insegna che l’altro è un potenziale nemico dal quale devi star lontano). Che si accettino le app di tracciamento è una cosa, che non si dica nulla sullo spirito di sorveglianza e controllo di questi dispositivi un’altra. Tutto questo ci fa temere che al finire della crisi sanitaria ci ritroveremo di fronte, osserva Lévy, a una epidemia di stupidità e di autoritarismo, oltre che di paternalismo e di paura e a un’epidemia di odio della libertà.


5. Mansuetudine e obbedienza
Meglio un figlio che sbaglia e cresce attraverso gli errori che un figlio che obbedisce. Scrive il filosofo italiano Silvano Petrosino che di troppi divieti si muore. E si muore anche di perfezionismo, del volere fare il bene, l’unico bene, quello che i patriarchi (Stalin, Hitler, Pol Pot) conoscono e impongono, contro la visione pluralista che è quella che meglio difende la libertà. Si muore anche di mansuetudine e obbedienza, se si crede e si obbedisce ciecamente, cosa che ovviamente distrugge la libertà.
Per fortuna pare che noi umani siamo una specie docile e mansueta. Ce lo suggeriscono economisti e scienziati. Se infatti ci confrontiamo con i nostri più vicini antenati, gli scimpanzé, scopriamo - sostengono - che la nostra aggressività è infinitamente minore di quella che manifestano i nostri cugini primati nel contesto della loro vita sociale. Il passaggio evolutivo da uno stadio di aggressività elevato a uno di mansuetudine sarebbe il risultato di un vero e proprio processo di auto-domesticazione della nostra specie umana, attraverso il quale siamo riusciti ad auto-selezionare i tratti più gentili del nostro repertorio comportamentale e a portare all’estinzione quelli di natura più antisociale. La cosiddetta «autodomesticazione» si manifesta sia nell’aspetto (i tratti umani si sono addolciti e arrotondati, in qualche modo infantilizzati) sia anche nel comportamento, in particolare nella sottomissione a qualche figura autorevole. Attenzione dunque al processo di domesticamento e autodomesticamento, che ci investe e insieme ci spoglia di socialità, responsabilità, autocontrollo, autonomia e soprattutto libertà: le caratteristiche del nostro essere umani.
Dunque non è tutto oro quel che luccica. La sindrome da autodomesticazione ci porta infatti, oltre a dotarci di una socialità esasperata, ad aver bisogno di leadership e a subordinarci a un leader; a diminuire la responsabilità personale e aumentare il grado di subordinazione verso le regole sociali; a non accettare risposte complesse ma a cercare soluzioni semplici e facili. L’addomesticato tende a eseguire gli ordini senza farsi troppe domande.


Allora quella che noi ingenuamente credevamo una virtù un po’ passata di moda , la mansuetudine, è ritornata alla ribalta con tutti gli onori per dirci che siamo una specie mansueta in quanto autoaddomesticata. Anzi, la reazione all’epidemia viene spiegata da alcuni come una tendenza contemporanea alla solidarietà e alla bontà che non sarebbe stata presente per esempio in occasione della cosiddetta influenza di Hong Kong, pochi decenni fa, quando pare fossimo invece molto più cattivi ed egoisti (senza pensare che l’evoluzione non si compie da un giorno all’altro).
La mansuetudine ci viene presentata oggi non come virtù da conseguire, come si faceva nel buio Medioevo, ma a guisa di tendenza quasi genetica che lavora su di noi senza che ce ne accorgiamo, facendoci diventare più mansueti, docili, obbedienti. Con particolare accanimento sulle donne. La mansuetudine si afferma infatti non solo in quanto processo di autodomesticazione ma anche quale intervento eterodiretto al fine di rendere utile e docile, addomesticare e asservire il soggetto: in questo caso avvicinandosi alle pratiche di disciplinamento forzato messe in rilievo da Foucault o all’ortopedia dell’io sottolineata da Lacan.
La storia continua con Simone Weil, che vede nelle pratiche di lavoro in fabbrica l’intento di generare nel lavoratore «una docilità da animale da soma rassegnato» e con Norberto Bobbio, che dichiara di preferire il termine mitezza a quello di mansuetudine per la presenza in quest’ultima del senso di intervento coercitivo esterno che costringe ad accettare sul dorso la mano del padrone. La storia giunge infine al luogo dove, grazie anche al ruolo delle mani, che manipolano, toccano, persuadono, sottomettono, si domano i cavalli: il maneggio, dal quale anche il termine inglese manager: chi regola, conduce, guida gli affari, una ditta, i suoi impiegati...
Si domano i cavalli, ma soprattutto le cavalle, cui vennero avvicinate per analogia le ragazze da marito, che vanno addomesticate e rese mansuete, pronte per affrontare la vita in subordine sotto il giogo del futuro sposo. Mariage comme domptage, motivo alla base della commedia La bisbetica domata come di molta altra commedia umana, sulla scena e fuori, dal quale la libertà esce cancellata.
Tra i perché di un rifiuto
La serata «saltata»
Lo scorso 22 ottobre avrebbe dovuto svolgersi un incontro al LAC organizzato dal Circolo Battaglini sul tema Libertà e COVID. Ospiti la filosofa Francesca Rigotti e l’esperto di diritto Roy Garré. Pochi giorni prima dell’evento, tuttavia, Francesca Rigotti ha dato forfait per coerenza con il proprio pensiero: non intendeva venire a parlare in mascherina delle ragioni filosofiche contro le misure «liberticide» emanate in tempo di coronavirus.
La serata, a questo punto, è saltata. Ma il dibattito su libertà e COVID resta di vivissima attualità. Il Corriere del Ticino ha deciso di promuoverlo pubblicando in questa prima puntata l’intervento «mancato» di Francesca Rigotti e, nella seconda, un’autorevole opinione in direzione opposta.
La lettera
Singolare la lettera del 19 ottobre con la quale Francesca Rigotti ha comunicato la sua scelta di non partecipare alla serata. Eccola:
«Ci sono momenti nella vita delle persone nei quali ci si trova davanti a scelte che non si vorrebbero mai fare; ad alternative tra le quali non si vorrebbe dover scegliere; a valori che non si vorrebbero violare. Uno di questi, che sta ad un posto altissimo, è che gli impegni presi si mantengono, che le promesse si rispettano.
Ci sono però momenti della vita in cui le condizioni richiedono decisioni che violano l’impegno preso in nome del rispetto della verità, della libertà, della dignità umana.
Quando ho accettato l’invito del Circolo Battaglini, che ancora ringrazio per la sua apertura mentale, in Ticino vigeva l’obbligo di coprirsi il volto soltanto sui mezzi pubblici; rapidamente si è passati a estenderlo a negozi e centri commerciali e ancor più rapidamente a tutti i luoghi al chiuso. Mi chiedo quali saranno i prossimi passi, e qual mai principio di proporzionalità causa/effetto immaginino di rispettare.
Tali e simili provvedimenti umiliano le persone rendendole simili a animali docili e addomesticati (»down»!, «a cuccia»!), sottomesse come sono da una paura tanto indotta con la collaborazione dei media quanto priva di motivazioni scientificamente fondate su numeri e dati attuali; le costringe a credere a dati mal interpretati, obbedire a misure liberticide e combattere (il virus, in una malintesa guerra).
La paura è una pessima consigliera.
Non credo, non obbedisco, non combatto. Non voglio vivere tutta la giornata con una maschera sulla faccia né vedere intorno a me soltanto persone nella stessa situazione.
Lo penso e lo scrivo con il cuore gonfio di dispiacere ma con la fierezza di chi compie una scelta secondo verità, libertà e giustizia, valori ignoti a chi per paura e opportunismo imbavaglia la vita di decine di milioni di esseri umani impedendo loro di essere umani (come suona il tema del Festival dei Filosofi lungo l’Oglio di quest’anno, cui pure con enorme dispiacere non ho partecipato, per non dover sottostare a simili misure)».