Mafia

Matteo Messina Denaro non si presenta, la sedia resta vuota

Il boss ha deciso di disertare l'udienza in collegamento video con l'aula bunker di Caltanissetta dove si sta svolgendo il processo in cui è imputato come mandante delle stragi di Capaci e via D'Amelio – Nino Di Matteo: «O si sentiva tanto potente da essere certo che non lo avrebbero arrestato, o si è fatto arrestare non facendo nulla per nascondersi»
© Carabinieri
Jenny Covelli
19.01.2023 15:03

Matteo Messina Denaro resta in silenzio. Anzi, neppure si presenta. Questa mattina il boss, arrestato il 16 gennaio dopo trent'anni di latitanza, ha rinunciato a presentarsi al processo d'appello - che si tiene nell'aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta - che lo vede imputato quale mandante delle stragi di Capaci e via D'Amelio. Il collegamento video con il carcere de L'Aquila, dove Messina Denaro è detenuto, era stato attivato ma l'imputato ha rinunciato. E la sedia è rimasta vuota. L'udienza è stata rinviata al 9 marzo «per consentire al difensore di essere presente». Uno dei due difensori d'ufficio, l'avvocato Salvatore Baglio, ha comunicato di avere ricevuto una delega orale dal difensore di fiducia nominato da Messina Denaro, la nipote Lorenza Guttadauro. «Che collabori lo speriamo tutti, ma nessuno di noi può saperlo - ha detto il procuratore generale di Caltanissetta, Antonino Patti -. È depositario di conoscenze sulla stagione stragista del '92 e '94 ancora oggi non sondate e sconosciute da altri collaboratori».

I segreti resteranno tali?

Per ora, quindi, il super latitante che ormai non è più fantasma resta in silenzio. «Che questa volta, nei due giorni successivi all'arresto, si stia parlando di due covi e vengano forniti dettagli ai giornalisti, fa ben sperare che con Matteo Messina Denaro non succeda di nuovo quanto avvenuto con Totò Riina» (nel 1993 il rifugio dove «il capo dei capi» si nascondeva non era stato perquisito per ben 18 giorni ed era stato completamente ripulito, con mobili ammassati in una stanza, le pareti imbiancate e perfino le tappezzerie e i rivestimenti staccati, ndr.). Con queste parole si è espresso ieri, durante la puntata di Atlantide in onda su La7, il conduttore Andrea Purgatori. Eppure nelle ultime ore è stato avanzato il sospetto che «il secondo covo» di Messina Denaro, la camera blindata scoperta dietro un armadio in un appartamento nel centro di Campobello di Mazara, sia stata «ripulita».

Matteo Messina Denaro, quando è stato preso, viveva in un appartamento di quattro vani più le cosiddette «pertinenze», acquistata sei mesi fa con atto registrato e firmato dal prestanome Andrea Bonafede. All’interno, gli agenti hanno trovato sneaker griffate, vestiti di lusso, un frigorifero pieno di cibo, ricevute di ristoranti, viagra e preservativi. Ieri, come detto, è stato trovato un secondo covo: la stanza segreta era dietro un armadio. Un bunker a tutti gli effetti ricavato in un appartamento al piano terra di una palazzina di Campobello di Mazara. Invisibile, nascosta da un fondo scorrevole coperto dagli abiti. Non c'era un letto, non c'erano suppellettili. La speranza era che lì si trovasse il «tesoro del boss». E invece pare che non vi fossero né soldi, né i tradizionali pizzini della corrispondenza mafiosa, o addirittura l’archivio di Totò Riina. Gli inquirenti avrebbero trovato però alcune scatole. Secondo le prime indiscrezioni riferite dalla stampa italiana, alcune erano piene di carte (su cui si aspetta la perizia calligrafica), altre completamente vuote.

Le ipotesi restano aperte

«I segreti dell'ultimo padrino» era il titolo dello speciale di ieri di Atlantide. E tra gli ospiti c'era il magistrato Nino Di Matteo. Nel 2012 Totò Riina aveva deciso che avrebbe dovuto morire. E Matteo Messina Denaro aveva ordinato 150 chili di tritolo. Doveva fare la stessa fine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E su quanto è accaduto in questi giorni, lui è stato chiaro: «Di fronte a certi comportamenti così apparentemente incauti l'alternativa è chiara: o Matteo Messina Denaro si sentiva tanto potente da essere certo che non lo avrebbero arrestato, o si è fatto arrestare non facendo nulla per nascondersi».

Il riferimento è alle parole di Salvatore Baiardo, che gestì la latitanza dei fratelli Graviano (e che non vuole essere definito «pentito»). Due mesi fa, sempre su La7, ai microfoni della trasmissione Non è l'Arena aveva dichiarato: «Che arrivi un regalino? Magari presumiamo che un Matteo Messina Denaro sia molto malato e faccia una trattativa per consegnarsi lui stesso per fare un arresto clamoroso?». A Massimo Giletti aveva detto che la cattura del boss sarebbe un «regalino al nuovo Governo», guidato da Giorgia Meloni, «un fiore all'occhiello». Baiardo aveva parlato di un tentativo di accordo da parte dei boss con lo Stato italiano sulla cancellazione dell’ergastolo ostativo. Secondo Di Matteo quelle parole vanno approfondite: «Sono rimasto colpito dalla nettezza delle dichiarazioni del Baiardo, soprattutto dal riferimento temporale. Bairdo disse che Messina Denaro sarebbe stato arrestato di lì a pochi mesi. Questa situazione va approfondita, non va presa sotto gamba se si considera che Baiardo è stato un uomo molto vicino a Giuseppe e Filippo Graviano, e loro amico, condannato definitivamente per favoreggiamento in relazione alla latitanza dei fratelli Graviano. È difficile credere che queste dichiarazioni così nette, così insinuanti le abbia fatte senza il consenso dei fratelli Graviano, senza essere addirittura mandato da loro. Ma non le ho intese in relazioni a uno scambio: arresto di Messina Denaro contro la liberazione dei fratelli Graviano».

In ogni caso, per il magistrato che vive sotto scorta «le indagini cominciano ora». «Le cronache di questi giorni ci dicono che è stato rintracciato a casa sua, il suo volto è uguale a quello delle foto della polizia. Ha abitato a Campobello di Mazara, ha girato con il documento di un'altra persona che abitava nello stesso posto, è stato arrestato in una clinica frequentata da centinaia di persone, aveva un cellulare con cui scambiava messaggi con altri pazienti e si scattava selfie - ha spiegato -. Lo Stato deve mostrare di non avere paura di fare certe domande e di indagare su cose molto scomode. In Italia ci sono magistrati in grado di gestire collaborazioni delicate, l’importante è che la magistratura, e soprattutto lo Stato, dimostrino di non avere paura».

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