A Betlemme, verso un Natale che non sarà nemmeno Natale

«Stavolta è anche peggio del Covid. Almeno in quel momento condividevamo il problema con tutto il mondo. Ora siamo soli». È desolato, Shadi. Il suo negozio, davanti al campo dei pastori, il luogo dove secondo la tradizione questi si trovavano quando l’angelo annunciò loro la nascita di Cristo nella grotta non troppo lontana di Betlemme, ha le porte serrate da oltre due mesi. Era il punto di riferimento dei pellegrini che si recavano nella città in cui Gesù è nato. «C’è voluto tempo per riprendersi dalla pandemia, e ora di nuovo chiusi. E non sappiamo neanche fino a quando. Qui, a Beit Sahour (la cittadina confinante con Betlemme e nella quale insiste la chiesa del campo dei pastori, ndr), la maggior parte della gente lavora negli alberghi e nei ristoranti per turisti, o con i pellegrini, nei negozi. Sono tutti a spasso. È una catastrofe nella catastrofe».
La piazza vuota
I pochi commercianti, soprattutto cristiani, che hanno i permessi israeliani, sono partiti alla volta degli Stati Uniti o di città europee per vendere i souvenir nei centri commerciali e salvare la stagione. La piazza della mangiatoia, il fulcro, il centro della città che la tradizione ebraica dice essere luogo di nascita di re Davide e quella cristiana di Gesù, è desolatamente vuota. Il grande albero e il presepio che tradizionalmente sono inaugurati all’inizio dell’avvento, non sono stati allestiti. Così come non sono state posate le luci. I negozi per turisti sono o chiusi o vacanti, così come i ristoranti e gli alberghi. «Apro soltanto perché non saprei che fare a casa - dice Rafiq, che ha un negozio di souvenir cristiani sulla strada che porta alla Grotta del latte - lì impazzirei. Su questa strada siamo rimasti in pochi, ci guardiamo sconsolati». La stradina costeggia a destra la piazza della mangiatoia e porta alla cappella nella quale, secondo la tradizione, Maria, Giuseppe e il Bambino si fermarono mentre scappavano in Egitto. Maria allattò il piccolo e una goccia di latte cadde, imbiancando la grotta. Per arrivarci, si costeggiano alcuni laboratori artigianali nei quali si realizzano statue e presepi, oltre ad altri oggetti, quasi tutti scolpiti nel legno d’olivo, la specialità artigianale di Betlemme. Il rumore dei torni, delle frese, dei trapani era, un tempo, la colonna sonora di questo percorso. Oggi c’è un silenzio spettrale.
Poliziotti «disoccupati»
Lo stesso accade nella Basilica della Natività e nell’attigua chiesa francescana di Santa Caterina. Le lunghe file che partivano dall’esterno del luogo della santa nascita, sono ormai soltanto un ricordo. I due poliziotti che facevano fatica a contenere la folla sono desolatamente seduti e sorseggiano un caffè. «Habibi siediti, bevi con noi. È una tragedia. Almeno noi abbiamo uno stipendio, quando si decidono a versarcelo. Qua, invece la gente fa la fame. I palestinesi pagano un prezzo troppo grande, e i cristiani ancor di più», ci dice Hanna. All’interno della Basilica, la totale assenza dei pellegrini non ha tuttavia bloccato le cerimonie. Gli ortodossi pregano le litanie all’altare maggiore sotto l’iconostasi, gli armeni incensano il loro altare sulla sinistra. Dopotutto, lo scorso 2 dicembre, per i primi vespri della prima domenica di avvento, come di consuetudine, il custode di Terra Santa, il capo della speciale provincia francescana che da ottocento anni custodisce i luoghi della Natività, fra’ Francesco Patton, ha rinnovato il suo ingresso a Betlemme, ma in maniera meno solenne.
Le autorità israeliane hanno permesso l’ingresso da Gerusalemme attraverso la porta nel muro di separazione alla tomba di Rachele, ma ad accogliere il francescano, dall’altra parte, c’era una delegazione di autorità più dimessa: mancavano gli scout, con la loro festosa banda di tamburi e cornamuse. E non c’era tutta la gente solita.
I frati francescani, in processione all’uscita della Basilica, hanno intonato qualche canto per spezzare il grave silenzio. La messa della vigilia di Natale si celebrerà come di consueto, con il patriarca latino, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, chiamato a presiedere la cerimonia. Ma la chiesa di Santa Caterina difficilmente sarà strapiena, così come accade ogni anno. Da Gerusalemme e dalle altre città vicine è difficile che arrivi qualcuno: i check point sono chiusi. I frati, il coro, il patriarcato si stanno coordinando con il Cogat, l’unità della difesa israeliana che sovrintende ai checkpoint, per permettere gli ingressi ma, soprattutto, l’uscita da Betlemme per poter tornare a Gerusalemme, dal momento che, salvo qualche rara circostanza, i varchi sono chiusi dal 7 ottobre scorso, il giorno dell’attacco terroristico di Hamas. Betlemme è tagliata fuori, qualche finestra oraria permette a pochissimi lavoratori scelti di andare a Gerusalemme a lavorare. Per il resto, non si entra e non si esce. E quando si ha il permesso, l’attesa ai checkpoint è di ore.
Non è chiaro neanche se il presidente dell’ANP, Abu Mazen, parteciperà alla messa della vigilia come di consueto. Il cardinale Pizzaballa ha sempre mostrato fermezza nelle sue parole, condannando ogni forma di violenza e ribadendo la vicinanza a tutti i sofferenti. Il comunicato che ha promosso con i capi delle altre Chiese cristiane, con il quale si annunciava la cancellazione delle manifestazioni natalizie a Betlemme, è un esempio di diplomazia. Non lo stesso si può dire di quello delle Chiese giordane che, nell’annunciare la cancellazione delle cerimonie nel regno hashemita, hanno accusato Israele con parole molto dure. Polemiche ci sono state pure contro il pastore evangelico luterano di Betlemme, che ha realizzato un presepe con un Bambino Gesù tra le macerie con kefiah e bandiera palestinese. Un uso politico della religione che ha fatto storcere il naso a molti. «La desolazione di Betlemme - mi dice Amjad, che ha un negozio di falafel vicino la Basilica - è lo specchio dei nostri tempi. Gesù nasce da solo. Noi siamo soli. C’è qualcuno che non ha neanche il bue e l’asino. E, oggi come allora, i governanti sono distanti, pensano a sé stessi e l’esercito uccide o bambini. Duemila anni, e non è cambiato nulla».