A Chernobyl torna la paura
«Era radioattivo. Il mio pallone era radioattivo. Bruciava. Si scioglieva, accartocciandosi su sé stesso. Puzzava, di quel fetore che emana la plasticaccia quando viene gettata tra le fiamme. Si sgonfiava. Soffocava. Moriva. Avevo portato dentro casa un pezzo di Chernobyl. [...] Il 26 aprile 1986 era scoppiato il reattore numero 4 nella centrale nucleare, ed era come se fosse esploso il mondo».
Andriy Schevchenko aveva 9 anni quando l’Ucraina, trascinandosi dietro tutta l’Europa, piombò nel terrore atomico. I suoi ricordi di bambino (oggi consegnati alle pagine di una divertente biografia scritta a quattro mani con Alessandro Alciato e pubblicata da Baldini e Castoldi) sono precisi. Nitidi. Anche perché coincidono con gli inizi della carriera di questo straordinario calciatore. Pochi giorni prima, il piccolo Andriy era infatti entrato per la prima volta negli spogliatori della Dynamo Kyiv.
L’esplosione fu un improvviso e terribile spartiacque. Tanto inatteso quanto incomprensibile. La vita che cambiava. Di colpo.
A lungo Schevchenko fu certo che il suo sogno di diventare un giocatore professionista fosse svanito per sempre.
L’allarme degli scienziati
A 35 anni di distanza, il 5 maggio scorso, la rivista “Science” ha riportato Chernobyl al centro dell’attenzione di tutto il mondo. Un lungo articolo di Richard Stone ha infatti rivelato che «le reazioni di fissione stanno di nuovo bruciando nelle masse di combustibile di uranio sepolte in profondità all’interno di una sala del reattore “Lenin”. È come “la brace in un barbecue”, ha dichiarato Neil Hyatt, chimico dei materiali nucleari all’Università di Sheffield». Un fuoco che riaccende la paura.
Anatolii Doroshenko, uno dei responsabili dell’Istituto per i problemi di sicurezza delle centrali nucleari (ISPNPP) di Kyiv, ha tentato una spiegazione semplice, accessibile anche ai profani della fisica nucleare: i sensori, ha detto, «stanno monitorando un numero crescente di neutroni». Un segnale inequivocabile che l’inferno di Chernobyl è vivo.
Il peggiore degli incubi
Tecnicamente, gli scienziati parlano di «fissione autosufficiente». Il peggiore degli incubi. Quando una parte del nucleo del reattore dell’unità 4 si sciolse, nell’aprile 1986, le barre di combustibile di uranio, il loro rivestimento di zirconio, le barre di controllo in grafite e la sabbia si riversarono sul nucleo per tentare di spegnere il fuoco e si fusero insieme in una lava: 170 tonnellate di materiale irradiato che, un anno dopo, venne coperto da un sarcofago di cemento e acciaio (lo Shelter, ndr).
I “guardiani” di Chernobyl pensavano che ogni rischio di criticità fosse svanito, o quantomeno molto attenuato, dopo l’installazione della gigantesca “New Safe Confinement” (NSC), una struttura costata 1,5 miliardi di euro e fatta scivolare sul sarcofago nel novembre 2016 per sigillare completamente il nucleo radioattivo.
Da allora, il conteggio dei neutroni nella maggior parte dell’area è rimasto stabile o è calato. Non ovunque, però. In una “stanza”, la 305/2, in 4 anni è raddoppiato.
Il timore, ha detto ancora Neil Hyatt a “Science”, è che «la reazione di fissione acceleri in modo esponenziale, portando a un rilascio incontrollato di energia nucleare». In realtà, non c’è alcuna possibilità che si ripeta quanto accaduto nel 1986, quando l’esplosione causò una nube radioattiva che contaminò tutta l’Europa.
Tuttavia, anche una reazione contenuta potrebbe far crollare le parti instabili del sarcofago, riempiendo l’area di polvere radioattiva.
«Ci sono molte incertezze - ha detto sempre a “Science” Maxim Saveliev, un altro dei dirigenti dell’Istituto per i problemi di sicurezza delle centrali nucleari di Kyiv - Ma non possiamo escludere la possibilità di un incidente. Il conteggio dei neutroni sta aumentando lentamente, i tecnici hanno ancora qualche anno per capire come soffocare la minaccia».
Una cosa, però, sembra certa: qualsiasi rimedio escogitato dagli scienziati ucraini sarà di vivo interesse per il Giappone, che sta affrontando le conseguenze del disastro nucleare di 10 anni fa a Fukushima, qualcosa di molto simile a quanto accaduto nell’ex Repubblica sovietica 35 anni fa.
La soluzione al problema Chernobyl resta comunque lontanissima. Stiamo parlando, infatti, del più grande disastro nucleare della storia, causa della prima emergenza ambientale globale: una bomba radioattiva 500 volte più potente di Hiroshima. L’esplosione del reattore ucraino provocò almeno 30 mila morti (nell’immediato e nei decenni successivi), oltre mezzo milione di sfollati, l’evacuazione di un centinaio tra città e villaggi, la contaminazione - praticamente per sempre - di un territorio grande come il Ticino. Mentre la lava radioattiva, imprigionata nella gabbia di cemento e acciaio, brucerà a mille gradi almeno per altri cent’anni.
La «presunzione prometeica»
A proposito di Chernobyl, intervistato di recente dal “Corriere della Sera”, Stefano Mancuso - botanico di fama mondiale e docente di Arboricoltura generale all’Università di Firenze - ha parlato di una «presunzione prometeica che resiste. L’uomo non riflette mai abbastanza sulle conseguenze delle sue azioni. Una ricerca di pochi mesi fa ha rivelato come i materiali inorganici del Pianeta, dal cemento alla plastica, per la prima volta abbiano superato il peso complessivo delle biomasse, cioè il peso stesso della vita. È uno sterminio».
All’inizio dell’agricoltura, ha aggiunto Mancuso, oltre 10mila anni fa, «avevamo 6mila miliardi d’alberi: sono diventati la metà, e 2mila miliardi sono stati tagliati negli ultimi 200 anni. Nel 1970, sulla Terra c’era il doppio degli animali che abbiamo oggi: il 96% dei mammiferi ormai è costituito da umani o da mammiferi in cattività, solo il 4% è fauna selvatica. Più del 70% dei volatili di tutto il mondo è fatto di pollame. Sono numeri apocalittici. E questa nostra presunzione prometeica, che ci fa pensare d’essere al di sopra di tutto, rischiamo di pagarla cara».