«Abbiamo sopravvalutato le sanzioni»: ecco perché la Russia non è crollata
Nonostante le numerose sanzioni internazionali, l’economia russa non è crollata. Anzi. Nei primi nove mesi del 2023 il Paese guidato da Vladimir Putin ha pure importato microchip occidentali per oltre un miliardo di dollari. I microchip sono elementi vitali non solo per gli armamenti dispiegati in Ucraina, ma anche per la produzione di automobili, smartphone ed elettrodomestici vari. Insomma, nonostante le restrizioni occidentali, i microchip sembrano essere ancora ampiamente disponibili in Russia. Secondo il professor Chris Miller della Tufts University, ricercatore esperto in economia, tecnologia, geopolitica, affari interni e Russia, nonché autore di numerosi libri tra cui Chip War: The Fight for the World’s Most Critical Technology e Putinomics: Power and Money in Resurgent Russia, tutta questa disponibilità di microchip è dovuta al fatto che l'Occidente non ha affrontato la questione delle esportazioni con la Cina, ovvero il più grande fornitore di componenti per produrre microchip in Russia.
In una intervista rilasciata a Meduza, l’esperto ha spiegato che la «maggior parte dei chip acquistati dalla Russia proviene dai Paesi del G7, dalla Corea e da Taiwan, transitando attraverso la Cina. C'è un po' di commercio verso la Turchia, un po' attraverso l'Asia centrale, e un po' di contrabbando direttamente dall'Europa. Ma la stragrande maggioranza passa attraverso la Cina». E questo mercato risulta possibile perché USA ed Europa «hanno erroneamente dato priorità ad altre questioni nelle loro relazioni con la Cina, non volendo creare nuove fonti di tensione con il Paese asiatico, spingendolo a tagliare le forniture alla Russia».
Per quanto riguarda le sanzioni internazionali contro il Paese di Putin, il professor Miller ritiene che l’Occidente le abbia sopravvalutate da diversi punti di vista: «In primo luogo, abbiamo sopravvalutato la misura in cui le sanzioni avrebbero interrotto le catene di approvvigionamento manifatturiere(…). L’impatto sulla produzione e sulle operazioni è stato molto inferiore» rispetto a quanto ipotizzato. Secondo l’analista, infatti, il principale errore di valutazione dell’Occidente è stato quello di non aver previsto una guerra così lunga, non pensando che l’enorme aumento della spesa per la difesa avrebbe portato a una crescita della produzione, proprio in un momento in cui l’economia non bellica stava decelerando. Con l’aumento della spesa militare, di fatto, il mercato del lavoro è rimasto solido: le sanzioni, seppur significative a breve termine, «sono state in qualche modo controbilanciate dall'aumento della spesa militare, che ha avuto un impatto economico positivo in termini di occupazione, in termini di salari, in termini di PIL, e in termini di costi a lungo termine».
In secondo luogo, prosegue Miller, «molte persone si aspettavano che le sanzioni avrebbero causato una crisi finanziaria immediata una volta imposte». Questa non è avvenuta, nonostante la repentina svalutazione del rublo: le sanzioni finanziarie, col tempo, sono diventate sempre meno significative, perché «la Banca Centrale e il Ministero delle Finanze sono riusciti piuttosto abilmente a gestire gli effetti» del crollo della valuta russa. Inoltre, continua l’esperto, c’era chi paragonava quanto fatto dagli Stati Uniti con l’Iran «in termini di esportazioni di petrolio», dimenticandosi che la Russia esporta, come produttore, quattro volte di più dell’Iran. Ed è «impossibile togliere così tanto petrolio dal mercato senza avere un forte impatto sui prezzi, cosa che l’Occidente non era disposto a tollerare. E quindi aspettarsi che le sanzioni petrolifere in stile iraniano fossero politicamente fattibili in Occidente era un’aspettativa sbagliata. Ciò che abbiamo visto invece è che negli Stati Uniti, in Giappone e in Europa i prezzi dell’energia sono stati estremamente importanti dal punto di vista politico, e questo ha davvero limitato la volontà dei leader occidentali di imporre dure sanzioni petrolifere».