Abdullah Öcalan e la Juventus, quando il calcio si mischiò alla politica
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Due mesi. Infuocati. E, di riflesso, carichi di tensione. Parliamo del periodo – di per sé brevissimo – che lega l’Italia, anzi il calcio italiano ad Abdullah Öcalan, il leader del PKK. Se in queste ore, a giusta ragione, si parla dello storico annuncio del leader del Partito dei Lavoratori del Kurdistan o, meglio, della dissoluzione dell’organizzazione politica e paramilitare, è interessante scavare nel passato e aprire una piccola, ma significativa finestra su un evento a cavallo fra pallone e geopolitica.
Riavvolgiamo il nastro: è il 12 novembre del 1998 quando Öcalan arriva a Roma. Ad accompagnarlo, il deputato di Rifondazione Comunista Ramon Mantovani. Quella del fondatore del PKK, invero, è una vera e propria fuga. Da Damasco, Siria, dove dopo diciotto anni di permanenza viene dichiarato persona non grata. Su di lui, infatti, pende un ordine di arresto per terrorismo internazionale valido in Turchia, Stati Uniti e Unione Europea.
Öcalan, come mette piede a Roma, chiede asilo politico. Subito, in Italia, si parla di un caso spinoso. Lo stesso governo D’Alema, sostenuto anche da Rifondazione Comunista, ne è consapevole. Il tutto mentre Ankara e il Dipartimento di Stato americano chiedono a gran voce l’estradizione in Turchia. Pure la Germania vorrebbe mettere le mani sul cittadino turco di origine curda. L’Italia, di per sé, non solo è sensibile alla cosiddetta questione curda, minoranza divisa tra più Stati e oggetto negli anni di repressioni tanto in Iraq quanto in Turchia. Il punto è altresì tecnico: il diritto costituzionale, infatti, non consentirebbe di spedire Öcalan in Turchia, poiché la pena per i reati contestatigli da Ankara è la condanna a morte. Alla fine, il 16 gennaio del 1999, il governo italiano decide di sbarazzarsi del leader del PKK. Invitandolo a lasciare l’Italia con una mezza promessa, quella di sensibilizzare l’Unione Europea sulla situazione dei curdi. Salutata Roma, Öcalan verrà catturato dai servizi segreti turchi un mese più tardi, il 15 gennaio, a Nairobi. Nell’ottobre dello stesso anno, paradossalmente ma nemmeno troppo, arriverà la risposta alla richiesta di asilo di Öcalan in Italia: è un sì.
D’accordo, ma il calcio che cosa c’entra? C’entra, eccome se c’entra, dal momento che il 25 novembre del 1998, quindi in pieno «caso Öcalan», la Juventus è attesa a Istanbul per affrontare il Galatasaray in Champions League. Destino beffardo, verrebbe da dire. La dirigenza bianconera, vista la situazione e considerando il crescendo quasi rossiniano della protesta anti-italiana in Turchia, spinge per giocare in campo neutro. La UEFA, però, fa spallucce. D’altro canto, fa notare la Confederazione europea, il Galatasaray non è direttamente responsabile delle tensioni politiche fra Turchia e Italia e, di conseguenza, può tranquillamente (si fa per dire) giocare all’Ali Sami Yen. Una decisione, quella dell’UEFA, legata altresì all’aspetto sportivo: il Galatasaray è in piena corsa per qualificarsi alla fase a eliminazione diretta e costringerlo a sfidare la Juventus in campo neutro potrebbe essere visto come una penalizzazione. L’unica concessione fatta alla Juventus è quella di spostare la partita al mercoledì successivo, il 2 dicembre, invitando le autorità turche a garantire che il match si disputi senza problemi.
Il popolo del Galatasaray e, allargando il campo, quello turco non prendono benissimo lo slittamento deciso dall’UEFA. A Istanbul, ma non solo, esplode la rabbia. Il volto di Öcalan compare con la maglia bianconera in un fotomontaggio mandato in onda alla televisione. Non finisce qui: il Besiktas, solidale con uno dei suoi storici rivali, decide di spostare il derby previsto il 29 novembre per consentire al Galatasaray di preparare al meglio la partita contro la Juventus. Le proteste, in particolare, si concentrano sotto l’ambasciata italiana ad Ankara e il consolato a Istanbul; vengono bruciate bandiere tricolori e intonati cori contro gli italiani. A guidare i manifestanti ci sono i famigerati Bozkurtlar, i Lupi Grigi, un movimento di ultradestra ampiamente tollerato dal governo turco.
La delegazione bianconera, dal canto suo, cerca di limitare i danni. Pianificando una trasferta lampo, in modo da rimanere in Turchia meno di 24 ore. Una violazione del protocollo UEFA che si tradurrà in una multa. A Istanbul volano anche i ministri Fassino e Melandri, nella speranza di incontrare i rappresentanti del governo turco e stemperare la tensione. Spoiler: non incontreranno nessuno. Nonostante le premesse, alla fine la partita fila via liscia e senza intoppi, grazie anche ai 20 mila agenti schierati allo stadio e nei dintorni. Addirittura, la Juve sfiora il colpaccio: in vantaggio fino all’ultimo respiro grazie a una rete di Amoruso, si fa acciuffare dai padroni di casa che pareggiano in mischia con Suat. C’è spazio perfino per una battuta, a firma Umberto Agnelli: «Dovevamo portare qui Bertinotti e poi mandarlo in Kurdistan».