Addio a Paul Auster, l'anima letteraria di Brooklyn
Potessero farlo, forse anche i grattacieli di Manhattan oggi piangerebbero la scomparsa di Paul Auster, il prolifico e amatissimo scrittore statunitense che se n’è andato questa notte, consumato da un cancro ai polmoni, nella sua Brooklyn. Quei grattacieli che lui, nato a Newark come l’amico Philip Roth in quella culla dell’ebraismo newyorchese con Jersey City e il Lower East Side, aveva imparato, bambino, a guardare da lontano al di là del fiume Hudson. E di quell’angolo di mondo, del suo fascino, delle sue inquietudini e delle sue contraddizioni, Paul Auster era diventato il cantore letterario (trasferitosi a Brooklyn «la città diventata quartiere» non aveva mai voluto lasciarla pur avendo vissuto a lungo in Francia) come Woody Allen per il cinema o Lou Reed per la musica.
Non a caso tutti lo associamo alla fondamentale Trilogia di New York di fine anni Ottanta (Città di vetro, Spettri, La stanza chiusa) che fu subito acclamata dalla critica. Dopo gli studi alla Columbia University, nel 1970 Auster si era recato a Parigi dove lavorò come traduttore fino al ritorno a New York nel 1974. L’esordio letterario furono le poesie e i racconti pubblicati sulla «New York Review of Books» e sulla «Harper’s Saturday Review». Poi arrivarono i romanzi, Il paese delle ultime cose (1988), Il palazzo della luna (1989), La musica del caso (1991, dal quale Philip Haas trasse un film nel 1993), Leviatano (1992), Mr. Vertigo (1994) e Timbuctu (1998). Nel cinema Auster è stato regista e sceneggiatore dei film Smoke, diretto insieme a Wayne Wang, e di Blue in the Face. Nel 1998 diresse Lulu on the Bridge interpretato da Willem Dafoe e Harvey Keitel. Nel 2005 pubblica lo spiazzante Follie di Brooklyn, al 2017 risale il maestoso 4321 mentre il suo ultimo romanzo, Baumgartner, era uscito, come sempre in italiano per Einaudi, nel 2023 in coincidenza con l’annuncio della sua malattia.
Tradotto in oltre quaranta lingue Auster è noto anche per essere un grande promotore della «musica del caso» che permea molti suoi romanzi, romanzi combinatori in cui spesso i punti di vista dapprima divergono per poi convergere in una narrazione a più voci. Ma Paul Auster è stato anche uno degli intellettuali americani più autorevoli e raffinati della sua generazione, sempre a suo agio con i registri alti e con quelli popolari della cultura occidentale, figlio di quell’intellighenzia ebraica americana (di cui andava fiero) poteva discutere animatamente di baseball, di cui era grande intenditore, come di geopolitica internazionale con la stessa competenza e passione. Molto amato e letto in Europa, Auster era anche un insospettabile esperto di letteratura italiana: «Petrarca, Dante, Cavalcanti. Li leggo ancora spesso, perché hanno sempre qualcosa da dirmi – aveva rivelato in un’intervista alcuni anni fa –. Da giovane ho studiato molto anche Giordano Bruno, ma metto al di sopra di tutti, per liricità e contenuti, Giacomo Leopardi: ritengo lo Zibaldone un capolavoro del pensiero, che spazia al di sopra del resto. Ma Italo Svevo è in assoluto tra i migliori del ventesimo secolo, di un’attualità eccezionale. La coscienza di Zeno sembra scritto l’altro ieri. Leggo sempre con gioia Italo Calvino, ammiro Umberto Eco che ha composto saggi eccezionali, e poi Carlo Emilio Gadda e Tommaso Landolfi, il quale ha avuto una fiammata di moda e di interesse da noi in America, qualche tempo fa, con La moglie di Gogol, un racconto che una volta letto credo non si dimentichi più. Antonio Tabucchi poi: ha un respiro molto internazionale, ma ho un particolare ricordo di Ungaretti che ho conosciuto personalmente e che ha avuto su di me una grandissima influenza».
Quella che lui ha avuto sull’idea della Grande Mela nell’immaginario collettivo: chissà se a Newark ne nasceranno ancora di romanzieri così.