Al cospetto di Donald Trump un'Europa fragile e senza una guida
Il vento repubblicano che arriva dagli Stati Uniti soffierà - forte - anche sul Vecchio Continente. Donald Trump, al di là della retorica utilizzata durante la campagna elettorale, è destinato a lasciare la sua impronta anche nei rapporti fra le due sponde dell’Atlantico. E non sarà un’impronta poco profonda. Anzi, secondo René Schwok, professore di Scienze politiche e diritto internazionale a Ginevra, gli effetti del cambio di guardia alla Casa Bianca si vedranno fin da subito. E in molti ambiti, come vedremo. «La prima realtà nella quale percepiremo un cambiamento, anche radicale, sarà quella geostrategica», dice. E il riferimento è proprio alla guerra scatenata in Europa dalla Russia, con l’invasione dell’Ucraina. Per Schwok, se non a un cambio di paradigma, assisteremo quantomeno a una netta inversione di tendenza. «L’abbandono totale o parziale dell’Ucraina da parte dell’Amministrazione Trump non è solo un’ipotesi da campagna elettorale», avverte. Potrebbe concretizzarsi davvero. E allora, «le implicazioni, per l’Europa, sarebbero enormi se si verificasse lo scenario più estremo. Ad ogni modo non credo che la Casa Bianca lascerà totalmente Kiev al proprio destino, perché ciò significherebbe permettere alla Russia di sottomettere e poi annettere completamente l’Ucraina». La versione più credibile, secondo il professore, è quella di una sorta di armistizio forzato. «Volodymyr Zelensky potrebbe essere costretto a riconoscere la situazione sul terreno», spiega. «Vale a dire che i confini ucraini diverrebbero quelli del fronte di guerra attuale», dunque senza il Donbass e la Crimea. Il disimpegno americano nei confronti di Kiev, seguito da un accordo forzato, produrrebbe comunque effetti rilevanti in tutta Europa. «Un’Europa che a quel punto si sentirà indebolita e minacciata direttamente dalla Russia, con Mosca che si riterrà vincitrice della guerra», sottolinea Schwok.
Il destino della NATO
Il cambio di strategia da parte americana nella guerra in Ucraina potrebbe essere solo il primo degli effetti concreti su Bruxelles. Il secondo, infatti, riguarderebbe un chiodo fisso di Trump, e cioè la pretesa di un’Unione europea capace di badare a sé stessa in materia di sicurezza ed eserciti. «La visione del presidente repubblicano è quella di un Vecchio Continente disposto a spendere molto di più, in termini di Prodotto interno lordo, per gli armamenti», ricorda il professore. «Trump vorrebbe che ogni Paese dell’Unione consacrasse almeno il 2% del PIL all’esercito. È il cosiddetto burden-sharing, la condivisione degli sforzi in materia bellica». La questione del riequilibrio delle spese militari fra USA e UE è vecchia di decenni, ma Trump ne ha fatto un cavallo di battaglia sin dalla campagna per le Presidenziali del 2016. E non mollerà su questo punto. «L’abbandono almeno parziale del sostegno all’Ucraina e le richieste statunitensi di maggiore collaborazione in ambito militare, metteranno molta pressione sull’Europa», prosegue ancora Schwok. Ciò, però, non dovrebbe tradursi automaticamente in maggiore autonomia strategica da parte di Bruxelles. «E nemmeno alla formazione di una forza armata europea». Tuttavia, è verosimile assistere al fenomeno dell’incremento delle spese militari da parte di singoli Stati che compongono l’Unione, cosa in parte già avvenuta dopo l’invasione russa. «Anche perché non vedo un’alternativa alla NATO», sostiene il nostro interlocutore. «La maggior parte dei Governi europei, per non dire la totalità, vuole salvaguardare l’Alleanza atlantica. E questo perché gli stessi Paesi non hanno le capacità militari per proporre soluzioni differenti a questo sistema di difesa». L’ombrello garantito dalla tecnologia bellica americana, inoltre, rimane insostituibile. «Ci vorrebbero dieci, venti anni di tempo prima di riuscire a produrre in casa quello che gli USA hanno già oggi a disposizione negli arsenali».
Il vento sovranista
Al netto delle questioni strategiche e militari, l’arrivo di Trump alla Casa Bianca coincide con un chiaro periodo di debolezza dell’Unione. A più livelli. La speranza, allora, è che i Paesi che la compongono ritrovino unità d’intenti, una governance chiara. Una speranza che però Schwok non vede. «Sarebbe logico andare in questa direzione, permetterebbe di rispondere meglio al cambio di strategia da parte degli Stati Uniti e di ritrovare valori condivisi», spiega. «Ma nella situazione attuale sono scettico, in particolare alla luce dei Governi di molti Paesi: penso all’Italia, ai Paesi Bassi, all’Ungheria, ma anche a Francia e Germania». Il vento sovranista soffia non solo sulla Casa Bianca, bensì anche su molti Stati del Vecchio Continente (e non solo). «Il trend verso l’adozione del ‘‘trumpismo’’ da parte della politica di molti Paesi è piuttosto evidente», chiosa Schwok. «E questo non si traduce certo in un’apertura verso l’esterno, o verso Bruxelles in questo caso. Anzi, sovranismo fa rima con chiusura». Di qui, dunque, l’impossibilità di trovare una rinnovata unità europea, nemmeno in prospettiva. E questo perché, riflette il professore, anche la destra di stampo classico ha abbandonato da tempo il suo ruolo, andando sempre più a rimorchio dei movimenti populisti. «Un fenomeno a cui assistiamo anche in Svizzera».
La guerra commerciale
Finora abbiamo analizzato le conseguenze strategiche, militari e politiche dell’elezione di Donald Trump. Un aspetto centrale, tuttavia, lo riveste l’economia. Sempre il repubblicano, durante la campagna elettorale, ha più volte ipotizzato l’intenzione di inserire pesanti dazi doganali sui prodotti importati. Un ulteriore duro colpo per l’industria europea, da tempo in difficoltà. «I timori per una guerra commerciale attraverso l’Atlantico sono realistici», sottolinea a questo proposito il professore. «I dazi potrebbero essere introdotti non solo per le merci in arrivo dalla Cina, bensì anche dall’Europa. E Trump, dettaglio non certo secondario, avrà la maggioranza politica al Senato e alla Camera per farlo. Di conseguenza, non incontrerà troppi ostacoli». La questione, allora, è sapere come risponderà l’Unione europea a un simile attacco commerciale. «Una via potrebbe essere quella di andare a ruota, e cioè porre dazi sui prodotti americani», rileva Schwok. «Ma ciò contribuirebbe a innalzare il livello dello scontro. E non credo ci sia la volontà di alcuni Paesi europei di andare in questa direzione». Sullo sfondo di questa possibile guerra commerciale rimane anche l’elemento della leva fiscale per le imprese. Chiara, in questo senso, la volontà di agevolare le aziende da parte di Trump. «Una prospettiva che potrebbe indebolire ulteriormente l’attrattiva e la forza dell’economia del Vecchio Continente, che potrebbe perdere numerose aziende a favore degli USA».
Senza leader
L’Europa, nell’ora del cambio alla Casa Bianca, si scopre dunque fragile, sparpagliata. Manca una guida, un Paese capace di trascinare e mettere d’accordo tutti gli altri e di ristabilire rapporti di forza il più possibile equi. «La Francia ha svolto il ruolo di locomotiva, è vero, ma ha da tempo abdicato. Oggi come oggi non vedo quindi alcun membro dell’Unione capace di fungere da faro», rileva, concludendo, Schwok. «Non c’è più il Regno Unito, mentre in Germania la coalizione di Governo non funziona: a Berlino il contesto politico è da fine regno. L’Italia, invece, è governata dai sovranisti».