Alla parata del 9 maggio il discorso più interessante non è quello di Vladimir Putin
Alla parata del 9 maggio di quest’anno, a Mosca, il discorso più interessante non è stato tenuto da Putin. Ne parlerò in chiusura. La giornata commemorativa della vittoria sovietica alla fine alla Seconda guerra mondiale è ormai un esausto rituale sequestrato dalla propaganda del potere putiniano. Per avere un’idea del ruolo che svolge nella narrazione pubblica, il 9 maggio russo si può paragonare mutatis mutandis al 25 aprile italiano. La memoria di fatti importanti del passato – che non vi è nulla di male a rievocare ogni anno, anzi – viene rivestita di una retorica fuori dal tempo e funzionale a giochi di potere contemporanei, che ne oscura ormai il valore storico.
Se si guarda la parata di Mosca di quest’anno e la si confronta con quella dell’anno scorso, si rischia di confonderle, all’inizio. Che siano passati dodici mesi e molte sconfitte, nel frattempo, si comincia a notare quando il ministro della difesa, Sergej Šojgu, esce dal portale del Cremlino sulla sua fiammante Aurus scoperta, facendosi il segno della croce. Sempre più cupo ed esile nella sua divisa da parata; più tenue la sua voce dalla caratteristica pronuncia, quando saluta sull’attenti Vladimir Putin, al suono di un Urrah! urlato in canone dai battaglioni. A occhio, quest’anno i militi schierati sulla Piazza rossa saranno stati la metà dell’anno scorso. Il discorso di Putin è un po’ più breve, ma la retorica non cambia. La civilizzazione è a una svolta decisiva, secondo il presidente russo. Contro la Russia, oggi come in passato, è stata dichiarata una guerra. È di nuovo necessario il coraggio di coloro che nel 1945 vinsero contro il «fascismo» – espressione con la quale la propaganda russa designa l’insieme delle dittature europee del Novecento, ma anche chiunque si opponga oggi all’aspirazione russa di riprendere il controllo sui territori dell’ex Unione sovietica ed estenderlo al resto d’Europa.
Ripetendo con parole diverse un bizzarro leitmotiv del discorso dello scorso anno, Putin ricorda che la Russia vuole un mondo pacifico, libero e stabile. Sono tutti gli altri – le élite globaliste – che costringono Mosca a intervenire con l’esercito per difendersi da questi attacchi. L’Occidente causa colpi di Stato e conflitti sociali, distrugge i valori «che rendono uomo l’uomo» – un riferimento alla questione omosessuale, un tormentone della retorica russa. L’Occidente vuole imporre al resto del mondo la sua volontà e le sue regole, allo scopo di dividere e far crollare la Russia, per distruggere il sistema di sicurezza collettiva. È questa, precisa Putin, la ragione di ciò che sta accadendo al popolo ucraino: si è reso schiavo di chi gli ha imposto, con un colpo di Stato, un governo criminale asservito ai padroni occidentali. Le sofferenze di oggi sono il prezzo che gli ucraini pagano per questo progetto violento. I Paesi che l’Unione sovietica ha liberato dal fascismo distruggono i monumenti sovietici. Al contrario, per i russi, sottolinea Putin, la memoria dei difensori della patria è sacra, come lo sono tutte le battaglie che hanno deciso il destino del Paese.
È più stringata anche la sfilata dei mezzi militari. Si apre con i vecchi carri T34 dalle insegne sovietiche e termina in fretta con il passaggio dei lanciamissili mobili. Questi, comunica la voce stentorea dell’annunciatore, «adempiono con dignità i compiti loro assegnati» – s’intende nella guerra in Ucraina. Ci sono gli S400, ma mancano, a quanto sembra, le batterie di S300, che in questi mesi la Russia sta lanciando a profusione sugli abitati dell’Ucraina.
Quest’anno la Russia ha invitato alla parata i leader della Comunità degli Stati indipendenti, la confederazione a maglie larghe che sorse alla caduta dell’Unione sovietica. Si sono presentati in sette su nove, quelli più fedeli al Cremlino, per volontà o per forza. Poche immagini rappresentano meglio la situazione di questi Paesi e della Russia di oggi. Alla fine della parata, i sette presidenti e i loro seguiti si sono accodati come scolaretti dietro a Putin, nel percorso tra la Piazza rossa e il cancello dei Giardini di Alessandro, per raggiungere il monumento ai caduti, sull’altro lato del Cremlino. Tre di essi meritano una menzione speciale: il bielorusso Lukašenko, sembrato a tratti quasi sofferente, stretto e curvo nel suo impermeabile. Il kazako Tokaev, che sulla guerra in Ucraina sta tentando un disperato gioco di equilibrio tra Mosca e l’Occidente, pareva, con il suo sguardo assente, voler far credere al mondo attraverso le telecamere di trovarsi lì per caso. L’armeno Pashinyan si aggirava dietro Putin con la schiena ricurva e lo sguardo abbassato, immagine di chi sa quanto poco può attendersi in questo momento dall’alleato russo, di fronte alle intemperanze del vicino Azerbaijan.
Poi, tutti in riga, gli otto presidenti hanno deposto un garofano sul monumento ai caduti. In quel momento s’è vista una scenografia che non ha più nulla di storico, ma è ormai solo vecchia: un’ex Unione sovietica incarnata da otto Paesi che non riescono a liberarsi dalla nostalgia per il tempo che fu, nelle grige capigliature dei loro leader, superstiti di una storia finita per sempre.
Il discorso che ha portato una ventata di originalità, in questo contesto di cartapecora, è arrivato via Telegram proprio pochi minuti dopo la parata. Il capo del gruppo mercenario Wagner, Evgenij Prigožin, che combatte in Ucraina per la Russia, ha pubblicato un nuovo video di mezz’ora in cui afferma che è inutile cercare un parallelo fra la Seconda guerra mondiale e la guerra in Ucraina, perché la Russia oggi non lo merita. Il nemico non è il fascismo in Ucraina ma la stessa amministrazione russa, incapace di fornire il necessario all’esercito per conseguire la vittoria. Quasi un contro-discorso al trionfalismo di Putin. E’ possibile che questa ennesima intemerata di Prigožin sia l’unico squarcio di verità, in una giornata che ha visto ripetersi un copione ormai stanco di militarismo e vittorie. Intanto, l’esercito russo, in un anno e tre mesi di guerra, è fermo alla periferia di Bachmut e, per sollievo di noi tutti, non avanza di un centimetro. Gli attacchi missilistici della notte su Kyiv, che dovevano accrescere i fasti della parata del 9 maggio a Mosca, sono stati sventati dalle batterie antiaeree fornite all’Ucraina dall’Occidente. Aveva ragione Karl Popper: non è vero che la Storia si ripete.