«Andrea Agnelli capo degli ultrà»: ma difficilmente sarà ritorno alla Juve

«Andrea Agnelli capo degli ultrà». Ciascuno ha il suo modo di reagire alle avversità, alle disgrazie e pure alle umiliazioni, senza citare la solita citazione di Tolstoj. «Andrea Agnelli capo degli ultrà», così la comunità juventina, tifosi e media tifosi, ha cercato di superare la settimana dopo lo 0-4 recapitato a domicilio dalla perfida Atalanta. Evocare Andrea Agnelli, che si è trasferito in Olanda tra i fiordi di Amsterdam in attesa di rientrare più forte che prima, vuol dire rimuovere, almeno a parole, il cugino John Elkann. A dimostrazione che a Torino è sempre una questione di famiglia. Andrea ricorda ai tifosi un decennio straordinario con 9 scudetti e 2 finali di Champions, un dominio assoluto in Italia, il nuovo stadio stracolmo, una capacità di fare calciomercato che neanche ai tempi di Moggi, Giraudo, Bettega.
Altro dettaglio non irrilevante. Andrea ha il cognome Agnelli, era sempre in tribuna e quasi sempre in modalità ultrà (anche se ha avuto screzi proprio con gli ultrà). Al contrario, l’opposto, John è lontano più con lo spirito che col corpo. Gestisce i suoi affari, e i suoi guai. La Juve nella testa di John non può essere un pensiero primario. Andrea a capo della Juve, John a capo di Exor: un equilibrio che si è rotto per Andrea, non certo per John. E ci dispiace dover annodare la storia recente, ma il maggior difetto dell’Italia è silenziare la memoria e crogiolarsi nella gloria. Andrea ha lasciato la presidenza della Juve dopo due squalifiche sportive per un totale di 34 mesi: 10 per la cosiddetta manovra stipendi, 24 per le plusvalenze fittizie. Come un classico Icaro, alla ricerca della maledetta Champions, e non dite che la Coppa dei Campioni non sia una maledizione per la Juve, ha puntato tutto su Cristiano Ronaldo e tanti altri campioni in là con l’anagrafe e con l’ingaggio, e ha perso tutto. Ha perso per quell’incrocio malefico di blocco pandemia e progetto Superlega. Conti, soldi, politica sportiva: una miscela letale.
John ha rinvenuto una Juve agonizzante con 10 punti di squalifica e fuori dalle Coppe e un bilancio chiuso con oltre 200 milioni di euro di passivo. Ha cercato di farla guarire come si fa guarire una azienda di bulloni: azzerare la vecchia dirigenza, delegare ai suoi dirigenti; gestire il debito, ridurre le uscite. Evidentemente, non ha funzionato. Come non funziona il Milan degli americani. Le squadre di calcio non sono aziende di bulloni, i tifosi non acquistano bulloni. Le squadre di calcio, a costi molto alti, producono beni non materiali però assai richiesti: identità, passioni, sentimenti. Retorica? Certo, ma la retorica è necessaria. Serve a muovere le masse come il potassio serve a muovere le gambe. Il successo è mettere insieme questi elementi senza bruciare troppi capitali e, in rari casi, guadagnarci pure.
La Juventus di oggi è quella di ieri. Somiglia alla Juve dopo Calciopoli, spaesata. Didier Deschamps, Claudio Ranieri, Ciro Ferrara, Alberto Zaccheroni, Luigi Delneri. Cinque allenatori in cinque anni. Finché non fu chiamato Antonio Conte. Anche allora, in quei cinque anni terribili, c’era nostalgia di Luciano Moggi. Di Moggi. Andrea Agnelli finirà di scontare la squalifica il 20 novembre 2025 e molto probabilmente rientrerà nel calcio. Anche perché, va sottolineato, la politica sportiva (e i governi) hanno demolito la Superlega, ma questa Champions che dura come un campionato, voluta dalla stessa Uefa, cos’è se non un surrogato di una Superlega? Andrea Agnelli si riprenderà le sue rivincite, ma difficilmente tornerà alla Juve. Nel calcio e non solo nel calcio, l’unico modo per migliorarsi è guardare avanti, non indietro. Soprattutto se la memoria non è di aiuto.